Meeting Rimini, Rudi e Centoquattordici giorni

Meeting Rimini 2013. Aspetto l’inizio del docufilm seduta in sala D3, anzi ‘in D3’, come si dice, così chi non conosce il Meeting lo immagina come una battaglia navale dove ogni persona occupa una casella e per incontrarsi servono le coordinate. Il che non è del tutto sbagliato, ma comunque. Insomma sto seduta in terza fila, sala piena, un posto vuoto alla mia sinistra. Arriva un coetaneo con un fascio di giornali in una mano, la giacca al braccio, una borsa portadocumenti e portacomputer all’altra mano e chiede: ‘E’ libero?”. Dico sì, mi alzo, lui passa, permesso, prego, si siede, mi siedo. Poi però ricorda qualcosa perciò si alza di nuovo, molla sulla sedia giornali, giacca, borsa portadocumenti, portacomputer e – immagino – con dentro anche il cellulare e il portafoglio, mi guarda e mi fa la seconda domanda: “Posso lasciarle tutto?”.

Ora. Ditemi voi se esiste un altro posto al mondo dove a qualcuno venga in mente di lasciare ogni avere alla sconosciuta vicina di posto. Se ci provo io, mettiamo all’aeroporto, mi scambiano per una terrorista e mi arrestano. Se lo faccio in una qualunque sala d’attesa torno che mi hanno fregato tutto, pure il posto. Nemmeno a Messa lascio la borsa sulla panca, a fare la Comunione me la porto.

Al Meeting a Rimini mi è successo. Poi gli ho chiesto: ma con che coraggio mi hai lasciato giacca, giornali e borsa? “Eh, si vedeva dalla faccia che potevo fidarmi – ha risposto – e poi eravamo al Meeting”.

Direte: il mondo è pieno di gente cattiva e fregona che non aspetta altro gli si lasci giornali, giacca e borsa, qualcuno informi quell’ingenuo che non sempre si capisce dalla faccia, non sempre basta essere al Meeting.

In verità Rudi, cioè Rodolfo, Rodolfo Casadei, non è esattamente un’ingenua risorsa in pianta organica al Comune di Forlì, come me. Di mestiere fa il giornalista e nemmeno quello sportivo o di costume. Infatti nel 2013 ci conoscemmo in D3 perché lì si proiettava il reportage sulla Siria dove lui era appena stato o stava per andare, adesso non saprei dire, insomma è sempre su e giù per le zone di guerra. Ecco, Rudi è inviato per Tempi, in trincea permanente, e questa cosa convive con il suo essere fanciullesco.

Insomma Rudi e io da quel dì siamo amici. Che non vuole dire essere d’accordo su tutto, piuttosto immedesimarsi, partecipare alla vita dell’altro. Perciò ha letto Centoquattordici giorni. Dopo averlo letto mi ha scritto una lunga lettera che tengo cara. E poi ha pubblicato un articolo. Non di guerra, stavolta. E io son qui che mi chiedo cosa ho fatto per incontrare un amico così e mi rispondo che non ho fatto nulla, proprio nulla, a parte essere in D3 al Meeting quel giorno.

È il bello della Vita che ha un modo tutto Suo di stupirmi. Continuerà a farlo. Non credo che cambi metodo proprio stasera.

Amore vero – di Rodolfo Casadei

Un antidoto al mondo del desiderio mimetico e della rassegnata tolleranza consacrati come i giudizi ultimi sull’amore che si ritrova nei film di Mouret l’ho incontrato in un libro che si intitola Centoquattordici giorni, scritto da un’autrice di fiabe e racconti che di nome fa Daniela Tedioli. Non si tratta di un antidoto puramente letterario, perché la storia d’amore che abita le sue pagine è sicuramente vera – anche se non sta scritto da nessuna parte. Inconfondibilmente reali sono i dialoghi fluidi e piani (mentre il presidente della giuria del Lumières che ha premiato Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait ha spiegato che il film «è l’essenza del cinema francese, con persone che parlano in un modo nel quale nessuno parla nella vita vera»), verosimile è l’alternarsi di incanto (tanto) e bisticci (rari), inconfutabile la testimonianza della trasformazione interiore dei protagonisti nello svolgersi del loro incontro.

Lo si può capire

Succede esattamente il contrario di quello a cui allude il titolo del film di Mouret: qui le persone sono costrette alla coerenza con le parole che pronunciano – a fare quello che dicono – dall’imponenza dello stupore per l’attrazione reciproca; e se la storia è un evento che dura centoquattordici giorni – un niente e un’eternità nello stesso tempo, un niente destinato a durare in eterno – non è perché tutto ciò che è umano si consuma, o a causa degli impulsi del patrimonio genetico ed evolutivo o a motivo della pulsione mimetica sociale. Ma perché al di sopra dell’amore che innalza agisce un Mistero che vuole sollevare ancora più su, incomprensibile eppure reale come il Padre che chiede al Figlio di offrire la propria vita e di lasciare che si compia il sacrificio. Lo può capire (può: non è detto che lo capisca per forza) solo chi, oltre a innamorarsi e a vivere una storia d’amore, ha sperimentato a un dato momento di quella storia lo strappo impietoso del Mistero. Cioè l’amore come duplice catastrofe: quando irrompe e poi quando viene crocefisso. Tutti gli altri si accontentano della teoria evoluzionistica o di quella mimetica. E si addormentano tranquilli o sprofondano nella depressione, a seconda della sensibilità delle rispettive anime.

Bastardi in buona fede (e un libro come rimedio) | Tempi

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