Quando il motociclista invità la Signorina Giulianini a fare un giro in moto e lei accettò

Quando il motociclista invitò la signorina Giulianini e lei accettò

Da mesi il motociclista si fermava sempre a fare due chiacchiere con la Signorina Giulianini. Da quando l’aveva vista, poi conosciuta, ogni domenica pomeriggio si fermava al bar del paese ad aspettarla. Pensare che per anni aveva attraversato il borgo senza fermarsi, in gruppo con gli altri. Ma in aprile l’aveva vista, e aspettata, incontrata, e aspettata di nuovo, conosciuta, ogni settimana, da allora – e si era a settembre.

Lei usciva alle cinque in punto dalla casa di riposo dove passava la domenica pomeriggio a leggere agli ospiti poesie ermetiche – che sempre arrivavano ai cuori degli anziani, perché il cuore dei vecchi batte allo stesso ritmo di quello dei poeti -. Nel tragitto verso casa attraversava la piazza del paese, e lì l’aspettava il motociclista, al bar. Le chiedeva: “Com’è andata questa settimana?” e così, dopo ventiquattro domeniche e altrettanti caffè, gli sembrava di sapere ormai tutto di lei. Per esempio che i poeti del Novecento l’appassionavano, quando ne parlava diventava rossa, tutt’una con i capelli (che però, lui si era accorto, avevano qua e là riflessi chiari, dal giallo al bianco o, come avrebbero scritto quei poeti, dall’oro all’argento). Che infiammava della stessa passione i propri alunni, e anche che aveva letto la Bibbia da cima a fondo prima di insegnare il catechismo ai bambini di Prima Comunione (e qui provava una sincera pietà per il prete che aveva rischiato la leggesse tutta anche ai fanciulli).

A dire la verità non l’ascoltava sempre tutta fino in fondo. Devo controllare le gomme, pensava, mentre lei gli parlava degli alunni. Sabato cambio l’olio, programmava, mentre gli leggeva la poesia di Montale. Il garage è da sistemare per metterci la moto a dormire: tra un po’ comincia la brutta stagione. Quest’ultimo pensiero lo fece sobbalzare. Ottobre era alle porte e adesso o mai più.

– Vieni a fare un giro in moto con me? – le chiese bruscamente.
La Signorina Giulianini aspettò un attimo a rispondere. Non era abituata a essere interrotta mentre parlava – gli alunni se ne guardavano bene, i vecchietti figuriamoci – e non trovò il nesso tra quello che stava raccontando e il giro in moto. Forse non aveva capito bene.

– Devo salire sulla tua moto?

– Sì, un giretto solo. Breve. Da qui alla Colla.

– Perché?
La guardò serio.

– Santo Cielo, non sei mai stata in moto – constatò.

– Come fai a saperlo?

– Non si chiede perché si fa un giro in moto. Si va e basta. Il bello è andare in moto. Dai, passiamo da casa tua e prendi un giubbotto.
La Signorina Giulianini cercò di capire se le andava o no. Non aveva un paragone. Forse avrebbero avuto un incidente e dopo chi li avrebbe portati i ragazzi all’esame di terza media? E i vecchietti? E il Catechismo? O forse le sarebbe piaciuto, e sarebbe tornata viva. O forse le sarebbe piaciuto e sarebbe morta.
Lui se ne accorse. Aspettò una risposta che non arrivò.

– Facciamo domenica – le propose – alle cinque così torniamo prima del buio.

– Alle cinque esco dalla Casa di Riposo e dovrò passare a casa a cambiarmi. Facciamo cinque e mezza.
Il motociclista sorrise e lei si rilassò. Lui aveva proprio un bel sorriso.

La Signorina Giulianini usò la settimana per andare avanti con il programma a scuola, nel caso la gita si concludesse in un ruzzolo e lei non potesse andare in classe per un po’. “Quanto avanti? – si chiedeva – Chi casca da una moto e finisce steso quanto tempo ci mette a tornare in piedi?”, facendo venire il mal di schiena agli alunni a furia di leggere Manzoni. Doveva dare loro cibo solido prima di abbandonarli al proprio destino per chissà quante settimane. Poi scrisse a tutti una lettera dove diceva che qualunque cosa succedesse nella vita potevano sempre aprire a casaccio I Promessi Sposi e leggere una pagina. Li salutò uno a uno: “Come sono pallidi – pensò – quanto bisogno avrebbero di una passeggiata al sole!”, cosa che avrebbero indubbiamente fatto nelle ore successive finalmente liberi e senza compiti per il lunedì.

La domenica, ai bambini del Catechismo di Prima Comunione, presentò l’Apocalisse. Prima bussò alla canonica e spiegò a un Don Stefano allarmato che non aveva intenzione di traumatizzarli ma che, insomma, bisognerà spiegar loro che c’è un inizio e una fine, e che siam polvere e polvere torneremo, e che comunque che paura abbiamo, tanto si risorge. Il sacerdote cercò di prender tempo: “L’Apocalisse è complessa, teniamola per la Cresima”. Alla fine raggiunsero un accordo: lei avrebbe parlato della polvere e lui che nemmeno un granello va perduto. La Signorina Giulianini gli strinse la mano con la forza di un pugile.

Allo stesso modo con cui aveva preparato gli studenti alla sua lontananza, e i bambini della Prima Comunione alla propria dipartita, preparò un saluto degno di nota alla Casa di Riposo. Andò talmente carica di borse che i clienti del bar sulla piazza, vedendola arrivare, le corsero accanto, liberandola dai pesi, e accompagnandola fino in cima alle scale del palazzo. Tre ciambelle; POESIE DEL NOVECENTO, un tomo di seicento pagine; il catalogo di una mostra su Caravaggio e un altro su Klimt. Si era accorta durante gli ultimi giorni – ultimi giorni? – che a loro aveva sempre e solo letto poesie e mai fatto guardare un quadro. Ma ogni giorno è un’occasione e le occasioni non van gettate in un fosso (dove sarebbe finita sicuramente). Usò tutto il pomeriggio per rimediare. Scoprì che non solo il cuore dei vecchietti batte all’unisono con quello dei poeti, ma anche con quello dei pittori, e intuì anche con chissà quanti altri artisti – musicisti, per esempio. La prossima volta tornerò con un disco, si disse, e le salirono le lacrime agli occhi commuovendosi perché non ci sarebbe stata una prossima volta e loro sarebbero rimasti così, senza musica. Alle cinque li salutò piena di nostalgia e chiuse il portone. Raddrizzò le spalle e sentì il vento della novità smuoverle i capelli. Veloce, tornò a casa a cambiarsi.

Aprì l’armadio e ragionò che doveva mettersi molti indumenti ché in settembre e in moto sicuramente si sente freddo. Li distese sul letto. Un paio di pantaloni pesanti per stare calda. Con sotto calze grosse. Le calze erano bucate. Con sotto calze sottili ma non bucate. La canottiera in seta bianca, perché con calze carine si indossa la canottiera carina. Una camicia di cotone per fermare il vento (senza collegare che il vento lo avrebbe fermato lui, con la sua schiena, dove si sarebbe dovuta aggrappare, per non volare via). Sopra la camicia un maglione di quelli da montagna. Ne trovò uno con i ricami tirolesi, foderato e talmente spesso che un inverno lo aveva usato al posto del giaccone. Si svestì e infilò le calze intatte, i pantaloni pesanti, la canottiera, la camicia di cotone, il maglione foderato e le mancò il respiro. Scoppiava dal caldo e mancava ancora il giaccone. Si svestì fino alle calze e alla canottiera. Allora, daccapo. Camicetta leggera come la canottiera. Sulle calze i jeans. Maglione. Così riusciva a respirare. Era semplice: bastava cominciare dalle calze e arrivare alla camicetta, sul resto ci si aggiusta. Si guardò nello specchio. Quando era stata l’ultima volta che aveva infilato quel maglione? Al campeggio dei sedici anni, dove aveva incontrato il fidanzato che non c’era più. Si stupì che, forse per la prima volta, il ricordo non fosse doloroso. Si stupì talmente che pensò di essersi distratta. Riproviamo, si disse: il mio amore, la vita che aspettavamo e che non c’è stata, il tempo che è durato. Chiuse gli occhi per concentrarsi meglio e sentire arrivare il groppo alla gola. Niente. Aprì gli occhi. Dopo quant’anni quel maglione le stava ancora bene e lei era viva. Si svestì di nuovo e andò in bagno a lavarsi, tornò in camera e si rivestì per la terza volta nel pomeriggio e alla fine fu davvero pronta. Se mai un’ambulanza l’avesse dovuta raccogliere sarebbe stata pulita e con la biancheria in ordine. E se adesso era viva, e lo era, qualunque cosa poteva succedere ancora.

Il motociclista l’aspettava. Forse ha cambiato idea, si diceva, forse ci ha ripensato, aspetto ancora un po’. La riconobbe dal passo lungo e ben disteso, anzi, più baldanzoso del solito. E gli sorrideva come se dalla domenica prima non avesse fatto altro che attendere impaziente il giro in moto. Le sistemò il casco e la fece salire. Aggrappati bene, le disse prima di mettere in moto. Si aggrappò fortissimo e partirono.

La Signorina Giulianini imparò subito. Lo teneva così forte che per gravità, quando lui si piegava nelle curve, si piegava anche lei. “Brava!”, le disse un paio di volte. E anche: “Laggiù!” indicandole qualche punto all’orizzonte. Il paesaggio erano campi di grano con dietro colline coltivate. I vigneti si aggrappavano alle colline come lei al motociclista, e negli uliveti i rami, sotto il peso delle olive, si piegavano bassi come loro. Vedeva i trattori, senza sentirne il rumore – la moto assordava – e i cani correre pazzi di libertà, sui campi. Finirono anche le coltivazioni, iniziarono i boschi e poi finirono anche i boschi ed entrarono nella foresta di castagni. Stare al caldo dietro lui era piacevole, con il vento e il rumore della moto. Non doveva guidare o pedalare o camminare. Solo abbracciare e guardare. La foresta di castagni si infittì, un curva, il Passo. Il motociclista rallentò, fermò la moto sul belvedere. L’aiutò a scendere, scese, sfilò il casco, lo sfilò a lei. Poi le prese la testa fra le mani e la baciò.

La Signorina Giulianini ne fu straordinariamente contenta. Baciarlo era ancor meglio che abbracciarlo e si chiese come aveva potuto evitare di baciare alcuno per così tanto tempo. Baciarlo e abbracciarlo contemporaneamente, però, le stava procurando male al collo. Mi viene il torcicollo a baciarti, sei troppo alto, gli disse. E lui, solo per via del torcicollo, solo per quel povero collo da cigno, sia chiaro, la portò sotto i castagni. Insomma la Signorina Giulianini finì stesa, non proprio come per tutta la settimana aveva immaginato.

Tornarono che era buio. La foresta aveva lasciato il posto ai boschi, i boschi alle coltivazioni. Al motociclista il paesaggio familiare era diventato inspiegabilmente misterioso. Difatti guidava piano, non piegava come prima sulle curve. Cauto, fermò la moto sotto casa di lei.

– Ci vediamo domenica – disse.

– Alle cinque, quando esco dalla Casa di Riposo.

– Dopo questo pomeriggio… cosa gli leggerai? – le chiese, sorridendo.
Lei pensò che aveva davvero un bel sorriso. Lo pensava tutte le volte.

La domenica seguente, una delle più belle domeniche di fine settembre, calda come lo sono solo certe, rare, domeniche d’inizio autunno, dalle finestre della Casa di Riposo, aperte sulla piazza, si udì venire una musica d’orchestra. L’infermiera aveva sistemato gli ospiti in salone, e adesso erano seduti sulle poltrone, o sulle sedie a rotelle, tutt’intorno al giradischi che la Signorina Giulianini aveva portato, e le facevano segno che non sentivano bene dato che erano sordi. Dal bar i clienti uscirono, per ascoltare meglio, uscì anche il motociclista che era arrivato in anticipo, e la Signorina Giulianini alzò il volume, per la gioia di tutti.

9 pensieri su “Quando il motociclista invitò la signorina Giulianini e lei accettò”

  1. Finalmente un fidanzato per la signorina Giulianini … Così misterioso e diverso da lei !… Ma si sa che gli opposti si attraggono sempre, nella vita così come nelle favole ❤️

  2. Meraviglioso!! L’amore riesce sempre a sorprendermi ed emozionarmi, proprio come un giro in moto che fa paura a pensarci finché non monti in sella e poi da lì non scenderesti più.

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