«Ma quanta gente c’è di là stamattina?».
Lo disse a voce alta, calcando sulle parole quanta gente, a confermare lo sprezzo che aveva verso tutta la quanta gente che era di là, nella sala d’attesa, mentre lei era di qua, a uno dei sette sportelli aperti nello stanzone vecchio, trascurato, del Cup in via Oberdan.
Spinse il tasto rosso per chiamare l’utente successivo e i tabelloni lampeggiarono: centosettantacinque. Iniziò a contare – contava sempre fino a dieci prima di premere di nuovo il bottone – tenendo la voce più alta del dovuto, cantilenando: «Uno… due… tre…». La quanta gente era talmente stupida da perdere il proprio turno. Passavano ore a non avere nulla da fare all’infuori del guardare i tabelloni eppure riuscivano a distrarsi e perdere la chiamata. «Quattro… cinque… sei…», come stavolta, Tamara era pronta a scommetterci, proseguendo la conta: «sette… otto… nove…».
Dieci!, esclamò trionfante scuotendo la testa di capelli lisci e gonfi – a trent’anni è ancora possibile avere i capelli lisci e gonfi – curvando all’ingiù le labbra, morbide e gonfie come i capelli, premendo il tasto: ma l’uomo che entrò trafelato nello stanzone fu più veloce. Era basso, la pelle rosso mattone, e cercava con gli occhi lo sportello da cui era stato chiamato. Girando lo sguardo girava anche la testa facendo ondeggiare i capelli lisci e gonfi, come quelli di Tamara, solo un po’ più scuri. E muoveva incerto un passo avanti, uno di lato, straniero pellegrino al Cup in Via Oberdan. Tamara lo odiò. Ce l’aveva fatta, era arrivato all’ultimo istante e non poteva evitarlo. Avvisò le colleghe: «C’è un numero indietro». Il giovane credette di essere chiamato e la raggiunse.
Tamara lo squadrò cercando di indovinarne la misera terra d’origine. Pakistan? Bangladesh? Perché non sei rimasto dov’eri o non ci torni e sei qui? E proprio da me? Tu vuoi il medico, io i documenti che forse avrai o forse no, dovrò accettarti o rimandarti indietro e saremo costretti a compilare un modulo che tu, analfabeta, non saprai riempire e a me toccherà guidarti riga per riga.
Il pakistan o bangladesh non aveva ancora detto una parola. La guardava e aspettava di ricevere un cenno. Aspettando si dondolava sui piedi – o sulle gambe o sulle anche, Tamara non poteva saperlo, c’era il bancone tra loro, dalla camicia in giù non vedeva nulla – e sorrideva incerto. Che cavolo hai da sorridere, pensò Tamara schifata dai denti bianchissimi e macchiati, non c’è niente da sorridere qui dentro.
«Prendere tessera» e una zaffata di aglio perforò il vetro che la separava dal pubblico. Bangladesh, chiaro. Solo loro riuscivano a mangiare in quantità smisurate le verdure puzzolenti. Le friggevano, le mangiavano e poi le sudavano. I vestiti, l’alito, la stessa pelle, tutto di loro era puzzolente, unto, povero, meschino. Ma perché, perché era riuscito ad arrivare da lei, pensò Tamara, perché a lei, a lei che amava Leopardi e la sete d’infinito e le stelle.
Ah Leopardi! Lo aveva scoperto in quarta superiore e non se ne era più disamorata. Leopardi, il grido alla luna del senso della vita, dimmi tu luna perché tante stelle? A che tante facelle? Com’era già il titolo della lirica? Ah sì, CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA, ma che ne sapeva questo bangladesh di Leopardi e della sete d’infinito dell’uomo, questo povero sudante fritture di verdure provenienti chissà da dove, anzi, non chissà da dove, dal Bangladesh, e dov’era poi il Bangladesh? E pensare che quando leggeva Leopardi le sembrava di essere lì, errante nelle pianure dell’Asia a guardare la luna, le sembrava di essere sotto il manto di stelle palpitanti una promessa, perché non si è realizzata e lei com’è finita lì, davanti al bangladesh puzzolente come se si fosse appena staccato dal gregge di capre, ma se stavi nel tuo Bangladesh che chissà dov’è e lasciavi me a leggere Leopardi che mi faceva sentire parte di una storia grande insieme a quel pastore, sotto lo stesso cielo e luna, in Asia.
Tamara ritirò il permesso di soggiorno, unto anch’esso, dalle mani nere, rabbrividì a veder le unghie zozze. «DotoresaFabri» disse lui. Lo fulminò. «Prima compila l’allegato tre». Gli lanciò il foglio da sotto il vetro e si alzò rapida per fotocopiare il documento lasciando il bangladesh davanti alla fatica grande di dover scrivere.
Alla fotocopiatrice c’era la fila. «Ci sono più asiatici qui che in Asia», disse una collega con quattro permessi di soggiorno in mano.
Tamara fotocopiò il permesso di soggiorno, tornò allo sportello. «Hai compilato il modulo?» gli chiese. Lui rispose a cenni e in una lingua incomprensibile. «Devi venire con chi parla italiano». Le fece intendere a gesti che aveva capito ma non sapeva scrivere. «Non posso scrivere io. E’ un’autocertificazione», spiegò rendendosi conto dell’assurdità delle proprie parole, confermandosi l’inutilità di lavorare in quel posto, a quello sportello, assetata d’infinito, del cielo stellato che Leopardi aveva disteso su lei e un pastore errante dell’Asia.
La Biro in mano al bangladesh si inceppò, Tamara aprì i cassetti a cercarne un’altra ma lui fu più svelto. Ne estrasse una forse dai pantaloni – Tamara non riuscì a vedere da dove esattamente, sembrò un numero di magia, ed ecco a voi la Biro, oplà! – e con quella firmò. Poi gliela passò da sotto il vetro. “Tua”, disse sorridendo con tutti i denti macchiati. La Biro era come lui, usata e con qualche tacca di nero. A Tamara uscì automatico il sorriso di cortesia che voleva dire no-grazie, ma lui spinse la Biro ancora più dentro il piano. E aggiunse: «Tuo nome?».
Tamara si inceppò come la Biro. Nessuno le aveva mai chiesto prima di allora come si chiamasse. La chiamavano signorina, alcuni la chiamavano stronza. «Mi chiamo Tamara» balbettò guardando il bangladesh che spinse di nuovo leggermente la Biro per assicurarsi che lei avesse capito: «Per te Taimaira».
Restò come una statua di sale, fissandolo con gli occhi spalancati. Guardò la pelle rossiccia, le mani sporche, annusò il puzzo e lo stomaco le si chiuse perché si sentì violentemente sorella di quell’uomo, come se fossero stati insieme sotto le stelle da bambini a chiedersi perché tante facelle. Impossibile, si disse. Impossibile che sia tu il pastore di Leopardi e il mio.
«Questo è il tesserino con gli orari della dottoressa, cosa fai tu? Sei un pastore?». Lui la guardò senza capire, prese il cartoncino e sorridendo con i denti macchiati se ne andò.
Tamara lo guardò allontanarsi anzi si alzò in piedi per vederlo fino all’ultimo. Vide i talloni neri nei sandali aperti, i pantaloni larghi e marroni, la camicia spiegazzata, i capelli neri e gonfi ondeggiare sulle spalle e quando fu sparito girò lo sguardo nello stanzone e vide l’umanità di ogni giorno, uomini e donne, giovani e vecchi, ciascuno con il proprio carico, li vide tutti guardare il cielo e chiedersi come lei e il bangladesh perché tante facelle, e adesso, lì, nello stanzone del Cup, stanchi anzi esausti, eppure ancora e fino all’ultimo fiato, tutti, lei compresa, attendevano la risposta.
Tamara spinse il pulsante rosso e aspettò, senza più contare.

Ho immaginato “il pastore errante ” , anzi l’ ho proprio visto ! Sono riuscita anche a sentire l”odore di aglio ! Sei una bravissima scrittrice !
È vero, non ho più contato fino a 10.
Aspettavo per ogni numero chiamato un’altra storia da ascoltare
e che arrivasse o meno, carica di ciò che io cercavo, stavo lì in attesa come sotto un cielo pieno di stelle e di domande.
Leggo di continuo e di continuo sono alla ricerca di altre vite che in pochi riescono a farmi annusare
Complimenti amica ❤️
Paola ti dico un grazie grande, ma grande! speravo che l’odore dell’aglio arrivasse fino all’orizzonte!!!
I tuoi racconti aprono sempre porte verso nuovi infiniti …. Grazie!
Altro bel racconto👍brava
Bellissimo racconto!
Leggendo le tue parole ho visto tutta la scena,
Conosco Tamara e non potevi descriverla meglio!
Non l’avevo mai vista allo sportello…
Adesso invece posso dire di averla vista!
Complimenti!
una cosa più bella non potevi scriverla! grazieee
“Tamara spinse il pulsante rosso e aspettò, senza più contare”
Sono contenta e leggendo il testo mi sono emozionata per come hai descritto mia mamma, grazie
e pensa Lucy che ne ho visto solo un pezzetto… tu molto di più. un bacio
Cavoli Dany! Sei sempre la mia scrittrice preferita…dal giorno del tuo primo racconto….ancora ci penso! Altro che odore di aglio…si sentiva pure il puzzo delle capre e il frescolino delle sere estive a guardare le stelle….e tutto l’amore fraterno che lega ogni uomo su questa terra! ❤️❤️ Grazie!!!
Complimenti, hai disegnato perfettamente mia sorella e io, che la conosco bene, me la sono vista davanti…lei, l’uomo del Bangladesh e la sua anima tanto profonda che si stupisce di un gesto gentile come il donare una penna… Brava, davvero brava…
Cara Glenda sì Tamara mi stupisce sempre. è semplice vera e non le basta mai niente vuole tutto perché il suo cuore è infinito!
Brava la scrittrice. Una descrizione molto accurata …. mi sono vista lì, presente ma invisibile, ad assistere a questo incontro che ha lasciato un segno …..
Ciao Catia mi emoziona sapere che sono riuscita a farti essere lì! grazie di avermelo detto.
Amo la tua delicatezza nel raccontare l’umanità. Grazie, Daniela:)
Finalmente ti leggo e leggo l umanità cosi vera che racconti e le paure e i pensieri di tutti noi a raffrontarsi con un mondo così diverso dal nostro. Bravissima!
umanità vera l’unica interessante… spero di continuare a vederla! grazie Chiara
Oltre ad essere la mia cliente preferita ora sei diventata la mia scrittrice preferita.Mentre leggevo il tuo racconto mi sono sentita catapultare nel salone del cup in mezzo a tutta la gente che aspetta impaziente il proprio turno. .Fantastica
e tu quante avresti da raccontare???
Insomma Daniela, questo racconti sono proprio belli, mi toccherà leggermeli tutti!
grazie Michele! alcuni sono meglio di altri, quello su Tamara è tra i miei preferiti!