Una fiaba per Benedetta – 2a puntata

Intanto che Mastro Pietro nella bottega sul Ponte Vecchio, accettava l’incarico, la principessa camminava nel parco del castello. Ora, se immagini il castello come una rocca in cima a un monte ti sbagli. Più che un castello era un palazzo, immenso, proprio nel cuore della città, e a un bambino il parco sarebbe sembrato infinito tanto era grande, abbracciato da mura. Elsa girovagava proprio lì. Da quando il Re, quel mattino, aveva indetto il torneo, non c’era stato più un posto tranquillo: la servitù aveva preso a mettere sottosopra ogni stanza, le damigelle impazzivano a provare vestiti e la Regina sovrastava tutti: “Spostate quel tavolo! Portate i piccioni a frollare! Preparate il vino nelle cantine!”

Suo padre, dopo aver dato l’annuncio, si era dileguato a cavallo. Così la principessa era rimasta frastornata, indecisa se aggregarsi alla follia generale o starsene sola. Aveva, infine, scelto di girare al largo e prendere la via del parco. Era salita alla collina del belvedere per guardare la sua città.

Che strano. Fino a ieri l’avevano lasciata nell’illusione che il futuro fosse cosa lontana e oggi annunciavano un torneo! E un matrimonio! Avrebbe sposato un uomo e da quel momento niente più sogni. Sarebbe diventata Regina e avrebbe avuto dei figli.

Elsa ebbe un brivido. Non voleva diventare come sua madre, interessata solo a governare un castello, con il marito che non c’era mai, occupato ad amministrare i beni di famiglia.

Immensi beni, enormi proprietà, l’orgoglio di appartenere a un casato antico. Pur essendo un Re senza regno – perché a governare Firenze c’erano i priori col potestà – era un uomo capace, consultato dai governatori quando dovevano prendere decisioni importanti per la città. Al castello, perciò, non c’era mai. Quando c’era le rivolgeva la parola per informarsi dei progressi nello studio. Null’altro. Quel poco di lui che conosceva le faceva pensare che non voleva un marito così. Ma come trovare fra i tanti cavalieri che le sarebbero stati presentati da lì a pochi giorni, “il” cavaliere? Come distinguere al volo un fuoco di paglia dal fuoco di legna che scalda? Sposare un fuoco di paglia avrebbe significato una vita infelice per sé e per i figli, mentre sposare il fuoco vero… sarebbe stata tutta un’altra cosa.

Elsa raggiunse il suo nascondiglio. Era il suo rifugio, ci andava quando voleva dipingere. Dipingere l’appassionava. Era come se tutto quello che vedeva si trovasse nella sua mano che prendeva a vibrare, e la vibrazione passava poi nel pennello. Le erano occorsi anni per insegnare al corpo a seguire il suo talento.

Ore e giorni e mesi e anni per insegnare al braccio a muovere la punta del pennello, imprimendogli la pressione e la direzione che Elsa voleva.

Abituando le gambe all’immobilità.

Resistendo al caldo.

Sopportando gli insetti.

Imparando che i colori lasciati aperti si seccano diventando inutilizzabili.

Che se i pennelli non si lavano subito poi è impossibile pulirli facilmente.

Che la tela dimenticata al sole, si asciuga tanto da spaccarsi.

O lasciata fuori la notte, si inzuppa di umidità, sgranando e deformando le pennellate.

Imparando, insomma, ad avere cura delle proprie cose.

Quando dipingeva dimenticava tutto, il tempo, gli impegni presi, faceva tardi a pranzo o a cena: i genitori l’aspettavano a tavola, davanti ai piatti che si freddavano, innervositi dai ritardi.

Se c’erano ospiti, il padre sorrideva in modo forzato, a denti stretti, commentando: “È solo una ragazza, le piace dipingere…” mentre la Regina, infilzando con rabbia le punte della forchetta nella bistecca, fissava lo stendardo reale che copriva la parete della sala da pranzo e vi immaginava scritto: “Il Re e la Regina non riescono a farsi ubbidire, come possono governare il popolo intero?”.

“Si può sapere dov’eri? – la sgridavano una volta rientrata – Abbiamo dovuto mandare Luca a cercarti!”.

Del parco aveva dipinto ogni fiore, albero, sentiero. Ed era stufa di fiori, alberi, sentieri. Voleva dipingere la gente. Per Elsa non c’era nulla di più bello, di più eccitante della gente. Ah, se avesse potuto dipingere i fiorentini! Sedette su una pietra, i gomiti puntati sulle ginocchia, la testa tra le mani, guardandosi intorno, sicura del proprio territorio e smaniosa di vederne altro.

Doveva riconoscere fra tutti i pretendenti quello che avrebbe voluto come sposo, e fare in modo che vincesse, a tutti i costi. Non poteva contare sui propri genitori, incapaci di aiutarla. Avevano sempre deciso per lei senza spiegarle i motivi delle loro scelte. “Perché il babbo è sempre in giro e tu non vai mai con lui? Perché non mangiate da soli visto che poi con me non parlate? Come faccio a capire, tra tutti i cavalieri, quello che fa al caso mio?”. Quando faceva le domande la Regina si innervosiva e andava in un’altra stanza.

“Meno male che Qualcuno non si tirerà indietro” si rinfrancò Elsa. San Giovanni, patrono di Firenze. Aveva sempre esaudito tutte le preghiere, non l’avrebbe lasciata sola davanti alla decisione più importante della vita. Non era forse un segno che il torneo e il matrimonio fossero previsti per il 24 giugno, nel giorno della festa del Patrono?

Certo, suo padre aveva scelto quella data, la più importante dello Stato, per riaffermare l’importanza del casato.

Certo, sua madre doveva aver approvato all’istante la decisione del marito, sicura che per quel giorno i fiorentini sarebbero stati comunque in festa e gli invitati avrebbero trovato la città al meglio.

Ma Elsa dava a quella data il vero senso: San Giovanni le era accanto e l’avrebbe aiutata.

– Principessa!

Era Luca, l’unico che conoscesse il suo rifugio:

– Mastro Pietro farà la corona. Sarà pronta per il ballo, andrò io a prenderla e te la porterò.

Quando erano soli poteva darle del tu. Erano come fratello e sorella, avrebbero dato la vita l’uno per l’altra. Elsa si alzò con un balzo e lo prese per mano facendo un girotondo:

– Questa è una splendida notizia! U-na splen-di-da no-ti-zia! – scandì gioiosa – Una corona di Mastro Pietro! La farà benedire da una marea di santi sacerdoti! – poi la principessa cambiò argomento: – Com’è fuori? Pieno di gente? Hanno già appeso i drappi per il Patrono? E l’Arno? E Ponte Vecchio? Dimmi tutto!

– Sì, la città è piena di gente. Mercanti, faccendieri, stranieri da contrade lontane. Banchi con venditori di focacce, c’è un profumino!

– Focacce? – interrogò Benedetta, arricciando il naso.

– Focacce, focacce – confermò la madre – Dei pani dolci.

– Mammina, mettici il chiosco delle piadine.

– Siamo a Firenze non a Rimini.

– Ma Luca fa la figura del tonto a dire che le focacce mandano un profumino. Sembra che non abbia visto niente nella vita.

– Banchi con venditori di focacce? – chiese la principessa – Non ti sono mai piaciute le focacce.

– Sì ma queste sono una novità. Tonde, sottili, salate. I mercanti che le preparano fanno parte di un popolo di pescatori che viene dall’altra parte dei monti, da un luogo sull’Adriatico.

– Piadine! – esultò Benedetta.


II

IL CAVALIERE

Erano venti i cavalieri invitati a gareggiare nel torneo.

Alcuni avevano avuto già occasione di conoscere la principessa, anni prima, quando era ancora una bambina, altri non l’avevano mai vista. Tutti sapevano che il suo viso era spruzzato di lentiggini, aveva capelli lunghi e castani, occhi scuri, naso piccolo, labbra piene, e quando sorrideva mostrava dentini bianchi. Il suo volto era definito soave.

“Mamma sono io!” interruppe Benedetta.

“Ma in questa favola nessuno si chiama…”

“Benedetta! Lo so, ma tu imbrogli! Con le lentiggini e tutto il resto quella sono io! Avevi promesso!”

“Dunque tu avresti le labbra piene?”

“Cosa vuole dire?”

“Vedi? Se non lo sai, non sei tu. Posso continuare?”

“Vai, vai – si rassegnò Benedetta che aveva capito come la madre aveva scritto la fiaba.”

Venti castelli in piena attività con scudieri che preparavano lance, spade, elmi e corazze, palafrenieri e stallieri che strigliavano i cavalli. Se la principessa avesse potuto vedere i cavalieri, avrebbe capito subito non poche cose. C’era quello che maltrattava il servo perché l’elmo non era abbastanza lucido e quello che vagava con lo sguardo perso, incapace di prendere una decisione. C’era il cavaliere in piena crisi per una scucitura nel mantello e quello che controllava ossessivamente la lancia: guardandola e riguardandola millimetro per millimetro, ore e ore. C’era il cavaliere che si preparava con noncuranza perché non gli importava nulla del torneo. E poi ce n’era uno diverso da tutti. Si chiamava Jacopo.

“No, mamma, questo no! Te lo proibisco!”

Questa volta Benedetta era arrabbiata. Addirittura gli occhi le si erano riempiti di lacrime e la madre capì di aver esagerato. La mania di raccontare i fatti prendeva il sopravvento…

“Scherzavo – mentì – non ho scritto Jacopo, ho scritto Alessandro. Volevo vedere cosa dicevi.”

Si chiamava Alessandro.

Le sue armi erano pronte come pure i suoi muscoli perché non era stato colto di sorpresa dall’annuncio del torneo: sapeva che, prima o poi, ci sarebbe stato e si era preparato per bene.

Aveva passato anni ad esercitarsi con la spada e adesso i suoi affondi erano temibili.

Aveva allenato il proprio cavallo alla giostra, veniva la pelle d’oca vedendolo lanciare al galoppo il corsiero nero, ruotando la lancia contro l’avversario.

Aveva imparato a tirare con l’arco, puntando ai bersagli che via, via aveva spostato sempre più lontano e adesso la sua mira era perfetta.

Non era la sfida a preoccuparlo. Piuttosto avrebbe voluto conoscere la principessa prima di sposarla. Bella era bella, si sapeva. Di buon carattere, anche. Tutti l’avevano vista in giro per Firenze con le dame di corte. Che fosse appassionata lo aveva capito osservando con attenzione un suo quadro che ritraeva uno scorcio estivo del giardino reale: solo con la passione si riempie una tela in modo così minuzioso. Doveva aver sopportato il formicolio alle gambe, il mal di schiena e le zanzare pur di dipingere quel pezzetto di parco.

La passione di Alessandro, invece, erano gli ammalati. Voleva trovare un posto, un palazzo per esempio, dove avrebbe chiamato i medici migliori e insieme avrebbero curato gratuitamente i poveri.

Ne parlava spesso con il suo migliore amico, Paolo. Da bambini erano già insieme a giocare, da ragazzi insieme a studiare, sempre insieme anche in compagnia degli altri amici. A studiare e a divertirsi, a cavalcare e a tirare con l’arco, a litigare e a fare pace. A scherzare e ad ascoltarsi sul serio. Come adesso.

Stavano camminando per Firenze, senza una vera meta, godendosi il piacere di starsene in giro in una bella sera di giugno. Alessandro girava con il naso in su a guardare i palazzi, e Paolo lo prendeva bonariamente in giro:

– Possibile che non ci sia nessuno che ti regali un palazzo? Che tu non trovi una ventina di medici disposti a lavorare in cambio di nulla e a rischiare di infettarsi per salvare dei poveracci?

– Uno sono io e l’altro tu. Figurati se mi lasci solo in quest’impresa. Gli altri medici vedranno quel che faremo e ci chiederanno di poter stare con noi.

Paolo non riuscì a trattenersi:

– Ma diventerò un medico povero! Io voglio diventare ricco e fare una bella vita!

– Ci faremo pagare molto dai ricchi e con quei soldi potremo curare più poveri possibile, che ne dici? Cureremo tutti, vedrai, nessuno sarà lasciato solo. – Il tono di Alessandro era serio. Ne era convinto davvero.

– In quanti si devono ammalare per farti contento, tutti i fiorentini? Guarda che arriva una pestilenza.

Anche Paolo era stato convocato al torneo. Avrebbe partecipato non per la principessa ma per divertirsi a far cadere i damerini da cavallo. Ad affrontare Alessandro, poi, non ci teneva proprio: contro il corsiero dell’amico il suo cavallo non poteva nulla, Alessandro lo aveva battuto troppe volte.

Non erano solo loro a parlare del torneo, non si parlava d’altro nello Stato, anche perché durante la novena a San Giovanni la principessa eraentrata nel Battistero gettandosi ai piedi dell’altare implorando dal Santo una grazia. Era rimasta lì, stesa, sotto gli occhi scandalizzati delle damigelle rifiutando di alzarsi finché la grazia non fosse arrivata. Era invece arrivata la Regina che le aveva intimato di andarsene o sarebbero stati guai. Questi erano i fatti così come li avevano visti tutti.

Quello che le damigelle avevano poi raccontato era che, giunta al castello, si era diretta alla cappella privata e si era buttata di nuovo davanti all’altare. Lì era rimasta un giorno e una notte stesa sul pavimento gelido finché la grazia implorata era arrivata. Che grazia? Una serva era guarita. La principessa si era prostrata per una serva.

Il popolo l’adorava.

Alessandro era cresciuto nel grande amore dei suoi genitori e sapeva che non voleva niente di meno. Sempre disponibili ad accogliere e conoscere i suoi amici. La madre che preparava merende per la gioia di vederlo in compagnia e il padre che dopocena combatteva il sonno per chiacchierare con lui e i suoi compagni di studi. Stuoli di zie, zii, cugini e cugine con cui giocare, divertirsi, litigare. Per imparare, insomma, a stare insieme.

Avevano scelto per lui i migliori maestri, gli erano stati insegnati tutti i segreti della spada e della lancia, non per far mostra di sé, o per tradizione, ma perché sapevano che un giorno gli sarebbero tornati utili. Gli avevano dato il meglio non per superbia o per chiudergli la bocca, ma per amore. Lo avevano cresciuto scegliendo ogni volta quale fosse la via migliore per lui. E lo avevano colmato di forte tenerezza, quella che come una colonna tiene in piedi un palazzo senza prendersene il merito.

Fu così che quando Alessandro capì che Elsa lo interessava, andò a chiedere consiglio al padre.

– È successo qualcosa? – chiese il padre preoccupato, alzandosi da dietro la scrivania ingombra di carte. Si erano salutati appena un’ora prima, a colazione, cos’era potuto accadere in così poco tempo?

– È per il torneo – rispose Alessandro – se lo vinco devo sposare Elsa e voglio prima conoscerla. Come posso fare? Non c’è tempo.

“Ci siamo – pensò suo padre – ecco il tuo unico figlio. Lo hai amato da subito, lo hai cresciuto, eccolo. È qui con la domanda più importante. Con la domanda che a volerla ascoltare tutta sarebbe: babbo, tu mi conosci, tu sai tutto di me, aiutami”.      

Avevano parlato a lungo del torneo. Che pazzo il Re ad affidare la sua unica figlia a un chicchessia! Chiunque avrebbe potuto vincere quel torneo, anche un poco di buono. Ma per il Re e la Regina l’unica cosa che contava era il titolo, la forma. Cosa ottima la forma, ma pericolosa senza la sostanza. Prima o poi il Re avrebbe dovuto cedere le redini della famiglia nelle mani del genero. E se si fosse rivelato inadatto? A rimetterci sarebbero stati la figlia e l’intera città. E tutto ciò che era stato costruito fino ad allora sarebbe andato in cenere, non sarebbe rimasto nulla.

Alessandro aspettava, rispettando il silenzio del padre. Quel silenzio protratto era buon segno. La questione non sarebbe stata liquidata in fretta. Si guardò intorno: le librerie, il profumo del legno invecchiato, quel legno di ciliegio che diventava sempre più rosso con il passare dei lustri, i libri, l’odore della carta. Era come essere in camera propria, o davanti al caminetto in sala.

– Ci sarà il ballo tre giorni prima del torneo – rispose finalmente il padre – sarà un’occasione importante, cerca di non sciuparla. Dovrai cercare di stare con lei il più a lungo possibile, parlarle e ascoltarla. Fatti conoscere per quello che sei. Ti apprezzerà, se è quella che speri. Poi deciderai se vincere o perdere.

Ad Alessandro l’idea piacque. Si rilassò, stendendo le lunghe gambe fino a toccare i piedi della scrivania, e allargando le braccia a stirarle. Guardò il padre e lo immaginò giovane, mentre corteggiava sua madre. Doveva averli imparati lì tutti i trucchi. Li immaginò mentre ballavano insieme: – Facesti così con la mamma?

Il padre sorrise. Anche lui si rivide giovane e audace, mentre ballava con la più bella ragazza della città.

– Certo. Funzionò, devo dire. Poi ci furono altre difficoltà, ma adesso cerca di capire se con Elsa vale la pena. Dimmi un po’ – lo interrogò divertito – è vero che si è stesa nel Battistero di San Giovanni a chieder grazia per una serva?

– Dicono così – ammise sorridendo Alessandro.

Quando Alessandro uscì, il padre sedette alla scrivania ma non riuscì più a lavorare. Davanti agli occhi aveva un ballo di tanti anni prima quando faceva volteggiare la ragazza che avrebbe sposato.

Benedetta a questo punto sospirò.

“Che bello un papà così. Lo vorrei anch’io”, disse malinconica.

 “Ti credo – le diede ragione la madre, carezzandole i capelli – anzi, secondo me, un papà così lo vorremmo tutti”.

“Camilla ce l’ha. Il suo papà è gentile e la aiuta a capire le cose”.

“Sono assolutamente certa che ogni tanto anche Camilla  vorrebbe un papà diverso”.

“Perché dici questo?” la interrogò stupita.

“Tutti vorremmo dei genitori diversi, quelli veri ci danno fastidio, a volte… o spesso, no? – L’occhiolino della madre fece subito sorridere Benedetta – Quindi goditi il papà del cavaliere Alessandro: l’ho scritto apposta per te”.

(continua)

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