Una fiaba per Benedetta – 3a puntata

III

LA STREGA

Tutto era pronto per il ballo.

Il salone addobbato a festa, i candelieri accesi, i pavimenti scintillanti. Le carrozze stavano arrivando, la principessa le guardava dall’alto della torre, attraverso i vetri tenuti insieme dal filo di rame. La notte si riempiva di attese.

Elsa indossava un capolavoro uscito dalle mani dei sarti di Calimala: sull’abito bianco avevano ricamato migliaia di perle che, anche nel buio della stanza, imprigionavano il chiarore della luna. Sembrava avvolta in una nuvola luminosa.

Ma, più del vestito, era lei che brillava, e di luce propria. Brillava la pelle candida, brillavano gli occhi scuri e profondi, il sorriso improvviso, e dolce. Perché Elsa era così: candida, impetuosa e dolce. Vedeva le persone senza malizia, com’erano, e chi guardava finiva illuminato, si sentiva degno di stare alla sua presenza, fosse Re o palafreniere, disgraziato o santo. Solo chi era malvagio cercava di nascondersi dai suoi occhi capaci di bucare nel profondo.

Mancava la corona. Luca gliel’aveva portata poco prima, giaceva impacchettata sul suo letto.

Aprì lo scrigno e soffocò un’esclamazione: la corona era d’oro, sì, ma ammaccata. E anche le pietre che l’adornavano non erano perfette. Ce n’era una azzurra, grande, dalla forma ricordava una donna. Poi un’altra, rossa, a goccia. Era… stravagante.

“A molti non piacerà”, pensò sistemandosela sul capo. Si accorse che qualcosa premeva sulla fronte. La tolse e ne guardò l’interno. Incastrata, c’era una croce di legno rosso, profumato di rosa. Riconobbe subito una delle reliquie di San Giovanni perché l’aveva vista dai monaci di Vallombrosa. C’era un biglietto: “Cara Principessa, la Madonna ti tiene la testa, il Su’ Figliolo il cuore, e San Giovanni ti guida perché t’ama come tu l’ami. Sta tranquilla ché sei in bone mani” Indossò baldanzosa la corona e si diresse al ballo.

Entrò nel salone come si addice a una principessa, scendendo la scalinata con il sorriso più neutro possibile e lo sguardo rivolto ai genitori: al Re, che si guardava intorno soddisfatto e alla Regina, già irritata alla vista della corona.

– Cos’hai in testa? – le chiese sottovoce – Un’altra delle tue sciocchezze?

Elsa riuscì a non perdere il sorriso e si volse al padre che la guardò senza vederla.

– Quanta gente, eh? – le chiese – Sono venuti tutti.

“Oh Dio” – pensò Elsa – “Aiutami. Sono da sola con due incapaci”.

Ballò con i cavalieri, ognuno arrivato con genitori, fratelli e sorelle, zii e zie, nonni e nonne, la tribù al completo insomma. Anche lei aveva il parentado e, ovviamente, le damigelle. A dire il vero fu una gran bella festa, di quelle che si raccontano per anni e anni ai figli e ai nipoti. Si ballò ancora e ancora, in salone e in giardino, al profumo dei fiori notturni, circondati dalle lucciole. Il cibo era ottimo, il vino fresco in quella calda notte di giugno prossima alla festa del Patrono. Impacciata e intimidita all’inizio, spigliata e raggiante con il passar delle ore, Elsa scopriva di divertirsi un mondo. Incredula si accorgeva di riuscire a sostenere ogni conversazione, di saper stare al gioco, e di fare colpo su molti dei presenti.

Si divertiva a farsi corteggiare dai cavalieri, e anche dai Re! Candida e pericolosa senza rendersene conto, sicura della propria intoccabilità e del tutto dimentica dell’impegno che l’attendeva e del perché stesse danzando con una corona ammaccata in testa.

– Desideravo tanto conoscerti – le disse il cavaliere con il quale stava ballando. Era la quindicesima volta che sentiva quella frase e riuscì solo a pensare che gliene mancavano altre cinque.

– E adesso che mi hai conosciuta? Come ti senti? – provocò. Il cavaliere però non rispose con una battuta. Nemmeno rimase interdetto. Continuò a ballare alla perfezione, i suoi occhi però si strinsero per un attimo, come quando arriva troppa luce e si vuole vedere bene.

– In realtà non ti ho conosciuta. Non basterà questa sera, per quello. Per rispondere alla tua domanda, mi sento bene perché è una bella festa. Mi sto divertendo, tu balli bene e anche le tue damigelle. Chi ha scelto le musiche? – Elsa rimase senza parole.

Prima di tutto le aveva detto che non sarebbe bastata quella sera per conoscerla: dunque avrebbe voluto conoscerla meglio.

Poi che stava bene ma per via della bella festa.

Poi che le damigelle ballavano bene.

In totale una frase carina e due disgraziate. Recuperò il controllo e rispose meccanicamente: – Le musiche le ho scelte io.

Anche lei strinse gli occhi come per vedere bene. “Cosa ho davanti” – si chiese – “il grande fuoco? Paglia? Legno? Di cosa sei fatto, cavaliere? Ti vedrò al torneo”. Sapeva che è proprio nelle sfide che si vede di quale pasta sono fatte le persone. Nessuno spazio per gli indecisi, i timorosi, i faciloni. Gli indecisi non si avventurano certo a giostrar con lance, i timorosi meglio che usino le spade come ornamento al fianco quando vanno a passeggio e i faciloni diventano giullari quando prendono un arco in mano.

– Qual è la tua specialità nei tornei, cavaliere? – gli domandò, continuando a ballare.

Alessandro sorrise, sicuro, allungando il braccio per prepararla alla giravolta.

– Tutte, mia principessa. Sono stato educato fin da bambino a tenere una lancia in mano.

Elsa passò sotto il braccio di lui, era così alto che non ebbe bisogno di chinarsi, ma storse la bocca:

– Meglio un libro che una lancia.

– Un libro in una mano e la lancia nell’altra. – replicò lui, riprendendola –  Come sta scritto da qualche parte: ‘puri come colombe, astuti come serpenti’.

– Io non tengo armi. E non sono astuta come un serpente – si allontanò, come prevedeva la danza.

– A vederti stasera non mi pare – Alessandro la riavvicinò.

Elsa divenne rossa, picchiando un po’ troppo forte le scarpe sul pavimento:

– Com’erano le scarpe di Elsa? – chiese Benedetta.

– Bianche, con il tacco.

– Scusa, ma Elsa balla con delle scarpe così? – la interrogò perplessa – La Tutu si mette le All Star.

– La Tutu non va a ballare e a quel tempo le All Star non c’erano – dichiarò la madre, sicura.

– La Tutu è andata in discoteca al mare e aveva le All Star, me lo ha detto sua sorella.

La mamma di Benedetta cadde dalle nuvole.

– Ma lo sa sua mamma? Non ci posso credere.

– Io non posso credere che Elsa portasse delle scarpette da Cenerentola come dici tu. Infilale le All Star per piacere.

– A vederti stasera non mi pare – Alessandro la riavvicinò.

Elsa divenne rossa, picchiando un po’ troppo forte le scarpe sul pavimento: non si udì il rumore dei tacchi che sbattevano perché aveva ai piedi un’invenzione dei calzolai di corte. Le scarpe avevano una suola morbida, di una sostanza segreta, e dalla suola partiva una stoffa nera, rossa e grigia, borchiata, che arrivava alla caviglia. Erano chiuse con lacci di diversi colori: neri al piede sinistro e rossi in quello destro.

– Non è una frase galante da parte tua – si indispettì la principessa.

– È un fatto. Prendilo come complimento. L’astuzia è un dono e chi vuole realizzare qualcosa non può farne a meno.

La musica non li distraeva nemmeno per un attimo, concentrati com’erano l’uno sull’altra. Non sbagliavano un passo, una mossa, un inchino.

– Sei soddisfatta del torneo? – domandò Alessandro.

– Sono felice perché c’è una svolta nella mia vita. Avrei preferito avere più tempo per conoscere… – si interruppe, continuando a ballare – … il mio… – si interruppe ancora – … sposo – concluse.

– È lo stesso per me.

– Vorresti più tempo per conoscere il mio sposo? – scherzò Elsa ma vedendo la faccia seria di lui sbuffò: – Insomma non si può dire niente!

– Devo ancora capire se mi conviene o no vincere questo torneo – le rispose meditabondo, facendola piroettare nell’ultima giravolta. La musica finì. Si fermarono immobili. Elsa lo guardò, fiera:

– Se ti aspetti che ti elenchi le mie virtù, per convincerti del grande affare che faresti a sposarmi, aspetti un pezzo!

– Non mi aspetto proprio niente. Nemmeno io lo sto facendo, con te. Quello che vorrei è conoscerci. Svelarci. Usare le parole non per incantarci, ma per spiegarci chi siamo, così da poter scegliere.

Elsa restò di sasso. Guardò Alessandro negli occhi e vide un universo sconosciuto che voleva farsi scoprire da lei. Arrivò il Re.

– Ah, sei qui Elsa. Ti stanno aspettando cinque cavalieri.

La strega era là, in mezzo agli invitati.

Camminava lentamente, e mentre si muoveva intorno a lei si formava uno spazio vuoto. Veniva naturale scansarsi al suo passaggio, come ci si sposta quanto passa un animale sporco. Dava l’impressione di una medusa o di una lumaca.

La strega, in effetti, era molliccia. Quel volto cadente, per esempio, che lei nascondeva tirandosi i capelli neri fin sopra gli occhi. Quelle braccia gelatinose, per esempio, che invece mostrava credendole bellissime. “La tua mamma ha delle bellissime braccia” ripeteva al proprio figlio che, pur avendo trent’anni, credeva a tutto quello che lei gli diceva. Quella pancia gonfia, per esempio, che acquistava una qualche forma solo quando la stringeva in una guaina. Le gambe nessuno le aveva mai viste, erano sempre nascoste da vestiti lunghissimi che portava. Gonne fino ai piedi per celare scarpe inverosimili, con tacchi altissimi, esagerati. Perché la strega era bassa, bassissima. Ma usava tutti i trucchi che poteva per sembrare alta e dominare i poveri.

Tutto in lei, del resto, era falso: il tono della voce, adulatore, quando in realtà trasudava disprezzo. Le occhiate sfuggenti, come se ti stesse guardando per caso quando, invece, ti fissava per maledire. Il suo sguardo si avvertiva anche alle spalle. Chi era osservato sentiva una fitta dolorosa corrergli lungo la spina dorsale e se si girava, incontrava due occhi piccoli, due fessure miopi. Falsi anche i gioielli di cui si adornava: metallo colorato che lei faceva passare per oro. Privi di pietre perché, lei diceva, portare pietre preziose era come dare uno schiaffo ai poveri. Era, ovviamente, anche falsa nelle parole. Le usava non per farsi conoscere ma per nascondersi. Non per spiegare, ma per ingannare.

Questa era la strega che era riuscita a entrare nel castello e che adesso camminava con aria indifferente tra gli invitati.

Osservava tutto, contava tutto.

Contare tutto era la sua specialità: gli aperitivi serviti, le bottiglie stappate, i vassoi con i dolci offerti, i menestrelli, le candele accese, le bracciate di fiori che decoravano il salone. E di tutto calcolava il prezzo. Aveva capito che la principessa era ricca. Molto ricca. C’erano dodici damigelle con magnifici abiti, capelli inghirlandati, veri gioielli al collo. Tutto pagato dal Re. Questo metteva l’acquolina in bocca alla strega. Voleva quei soldi. Non per bisogno, ma per avidità. Aveva soldi a mucchi, a palate, ma li teneva stretti-stretti e non li spendeva per nessuno, né per sé, né per suo figlio.

D’altronde era avida non solo di soldi ma anche di potere, bellezza, felicità. Se ne nutriva come un vampiro fa con il sangue. Come fanno i pidocchi, sotto i capelli.  Quando capitava in mezzo a gente capace, bella, felice, come le persone che aveva intorno quella sera, il suo più grande desiderio era distruggere tutti, palazzo compreso, e salire sulle macerie. Unico modo, del resto, per essere la più alta. Avrebbe voluto vedere tutti infelici, disperati, miseri, come lei. Perché lo era lei: avida, infelice, disperata, misera. E così era anche suo figlio che avrebbe gareggiato al torneo in quanto duca. Titolo comprato. Nulla di strano a quel tempo, ma l’aveva comprato malvagiamente.

Il ciambellano che portava le richieste di titoli nobiliari all’imperatore si era indebitato per mantenere la numerosa famiglia e la strega gli aveva prestato soldi a usura. Per non finire strozzato, il poveretto aveva acconsentito a mescolare tra le tante carte anche quella che consegnava al figlio della strega il titolo di duca. Il figlio della strega godeva di questi imbrogli. Non era certo ‘puro come colomba e astuto come un serpente’. Piuttosto era il contrario della purezza e dell’astuzia. Un corruttore e un ottuso. Uguale alla madre, anche nell’aspetto: basso come lei e invidioso dell’altezza altrui. L’altezza altrui, fosse fisica, morale, spirituale, faceva macerare entrambi nell’odio. Miope come lei, anche d’intelletto: non vedeva più in là del proprio naso e riusciva a pensare solo a divertirsi e ad arraffare. Quello che si dice ‘vivere alla giornata’, gli si era cucito addosso.

Ad attendere Elsa per il prossimo ballo c’era proprio il duca grigio.

– Sei bellissima – le disse – e anche mia madre pensa lo stesso.

– Chi è tua madre?

Il duca le indicò la strega che li stava fissando e la principessa sentì un brivido correrle dalla nuca ai piedi. La corona si fece improvvisamente pesante. Elsa lo guardò meglio. Non le piaceva. Basso, ballava rigidamente, evitando il suo sguardo, come se avesse paura di incontrare i suoi occhi. Intanto le enumerava i castelli che possedeva per passare a spiegarle come sapesse tirare di scherma, spada e fioretto. Nessun progetto, niente.

Certo, gli altri cavalieri avevano fatto, chi più chi meno, lo stesso. Certo, se Elsa non avesse conosciuto Alessandro forse non si sarebbe accorta della differenza. Ma adesso cominciava, sia pure confusamente, a capire che doveva e poteva chiedere tanto a un uomo, all’uomo che sarebbe diventato suo marito. Tanto, tantissimo.

Doveva e poteva pretendere che il suo futuro sposo si facesse conoscere da lei. Doveva e poteva pretendere che con lei condividesse un ideale. Che insieme potessero realizzarlo.

Questo tale, invece, si corazzava, si faceva bello, si vantava. Non la incantò nemmeno per un minuto e al termine del ballo lo dimenticò.

Elsa proseguì le altre danze svogliatamente.

Cercava con lo sguardo Alessandro.

Non riusciva ad ascoltare ciò che i cavalieri le dicevano.

Le venivano offerti dolci che assaggiava senza sentirne il sapore.

L’allegria di poco prima era scomparsa.

Tutto aveva perso interesse a parte Alessandro, tutto fuorché essere ancora insieme.

Lui, dall’altra parte del salone, desiderava la stessa cosa, gli sembrava di aver incontrato nella principessa la donna che poteva stare al suo fianco. “Dovrò vincere il torneo”, pensò Alessandro. La decisione era presa.

La festa finì e gli ospiti sfilarono per porgere i saluti ai padroni di casa. Anche Alessandro s’inchinò davanti a Elsa.

– Al torneo, mia principessa. Che Dio mi faccia vincere.

Elsa alzò un sopracciglio: – Avevi detto che non eri preoccupato del torneo. Che ti bastava decidere se vincerlo o perderlo.

– Dicevo così perché non sapevo di tenere tanto alla vittoria. Adesso tremo all’idea di perdere. – E non c’era traccia di furbizia, nella sua voce. Era limpida e onesta.

La principessa lo capì al volo, capì che non scherzava: – Non vacillare, non ho mai visto un cavaliere tremante vincere alcunché. Vinci per me.

Dietro ad Alessandro due occhietti miopi si strinsero fino a diventare due fessure. La strega aveva sentito e aveva pronto un sortilegio.

Se pensi a un sortilegio come a qualcosa che si prepara nel buio di una cantina, con pozioni magiche, frasi speciali, invocazioni all’aldilà, non sbagli. Ma non è di questo tipo di sortilegio che sto parlando. La strega era talmente carica di odio che le bastava pensare con malvagità a una persona per farla stare male. A volte era consapevole di quello che faceva: pensava con cattiveria sapendo che il suo pensiero avrebbe provocato danni. Altre volte no, lanciava maledizioni senza neppure accorgersene. Le era sufficiente odiare qualcuno e subito questo cominciava ad ammalarsi.

Aveva incidenti con la carrozza.

A cavallo.

A piedi.

Faticava a dormire.

Accadevano disgrazie ai suoi cari.

Addirittura moriva.

Figurati la sera del ballo cosa riuscì a fare con un solo sguardo ai nostri innamorati.

Pensa che invidia avevano suscitato in lei: Alessandro era chiaramente una persona speciale, lo avevano capito molti dei presenti, dai regnanti alla servitù. E la principessa era amata da tutti.

Pensa che rabbia: Alessandro era diventato il prediletto dalla principessa – tutti avevano notato che solo lui aveva avuto il privilegio di parlare con lei così a lungo. Elsa aveva fatto la sua scelta, o così sembrava, e il duca grigio non ne faceva parte. Poi Alessandro era il più bravo ai tornei.

Le due cose insieme significavano per la strega che la partita era persa, insieme alla ricchezza su cui credeva già di poter contare.

Somma l’invidia alla rabbia: così guardò Alessandro ed Elsa mentre si salutavano. Quegli occhi, che diventavano fessure, si stringevano dall’odio.

Alessandro lì per lì non avvertì nulla. Le parole della principessa “Vinci per me” erano calate su di lui come un mantello caldo nel fresco della notte e tornando a casa, nella sua carrozza, vi si crogiolava ancora. Ne era riempito, scaldato.

Vinci per me, gli aveva detto. E già sottintendeva: fallo per me, perché anch’io ti ho scelto. Talmente cariche di promesse, quelle parole, che lo avevano rinfrancato e insieme stordito di felicità. Adesso però che si preparava ad andare a dormire, sentiva in mezzo alle spalle una puntura che andava facendosi sempre più forte. Il dolore era quello di un coltello affilato che si insinuava sotto le scapole e poi si muoveva di taglio. Alla fine riuscì ad addormentarsi, e il suo fu un sonno agitato. Lo assalì un incubo feroce, dove difendeva una donna da un essere mostruoso. Si svegliò sudato, sfinito, con quel dolore tra le spalle che cominciava ad aggredire il collo e gli avambracci. Si riaddormentò ma ecco di nuovo il sogno orrendo, a svegliarlo. All’alba, esausto, crollò, finalmente, cedendo a un riposo che sarebbe stato di poche ore senza altri sogni.

Elsa, lo stesso. E più sentiva male più diventava furibonda. La sua camera le sembrava piccolissima, incapace di contenere lei e il suo male. Nel letto a baldacchino dal materasso morbido non trovava una posizione che la rilassasse. Si alzava, andava alla finestra, la spalancava, ma entrava aria calda che le sembrava addirittura scottare, come la propria fronte. Richiudeva la finestra, si distendeva sul letto ma a guardare le pareti dipinte, i colori pastello ondeggianti alla luce delle candele, le veniva mal di stomaco. Allora si rialzava, spalancava di nuovo la finestra, respirava l’aria calda e quasi marcita, e peggiorava. Infine aprì la porta per urlare alle cameriere che andassero a chiamare Luca.

– Ma cos’è questa roba? – gridava. Arrivarono Luca e il medico di corte. – Ho male alle spalle! Fate qualcosa!

Niente, ogni rimedio era inutile.

– Non me la prendo con lei, dottore – ansimava all’anziano medico che tentava con ogni unguento di alleviarle la parte dolorante – mi raccomando… non pensi che sono arrabbiata con lei, sono arrabbiata con questo male!

Alla fine Luca ebbe la brillante idea di metterle sui capelli sudati la corona. Il dolore si fermò e poté addormentarsi. Era l’alba.

Guarda – li vedi? – i due giovani che si addormentano nello stesso momento, lontani, dopo avere condiviso, senza saperlo, una notte così lunga.

Nemmeno per un istante pensarono a un intervento maligno. Non sapevano neppure che al mondo esistessero simili cose.

Ma lo avrebbero imparato.

Fin troppo presto.

IV

IL POPOLO

Sembrava che tutte le donne di Firenze si fossero date appuntamento sulle sponde dell’Arno. Centinaia di donne che lavavano i panni nelle acque del fiume, sbattevano le stoffe sulle pietre e poi le ributtavano in acqua tra alti schizzi e intanto chiacchieravano, ridevano, scherzavano, cantavano. Era tutto un levarsi di voci, stornelli, strilli dei bambini che si rincorrevano vicino alle gonne delle madri poi giocavano a lanciar sassi nell’Arno. Le famiglie benestanti avevano fatto staccare gli arazzi dalle pareti delle case e li avevano consegnati alle lavandaie. Queste li ripulivano con cautela dalla polvere e poi li lavavano. Infine sarebbero stati esposti, con i colori nuovamente brillanti, su terrazzi e balconi per la festa del Patrono. Le altre donne, oltre ai propri cenci che lavavano con forza, avevano un drappo ricamato per San Giovanni. Quello, invece, lo sciacquavano con delicatezza per poterlo appendere – prezioso quanto una tovaglia da altare – alle finestre. Lo avrebbero, al mattino della festa, sventolato durante il torneo al quale tutta la città era chiamata.

Tre serve di corte, sull’argine, stavano ripulendo il drappo reale. Due di loro chiacchieravano del ballo che si era svolto la notte prima.

– L’hai visto, vero, il cavaliere della principessa? – chiese la prima per la voglia di dire quanto sapeva.

E infatti alla risposta “io non so proprio nulla” interruppe il lavoro, le si piazzò davanti con le mani sui fianchi e cominciò soddisfatta a raccontare.

– È bello, forte, si vede che è capace di vincere il torneo. Ha le gambe lunghe di chi è abituato ad andare a cavallo e non si stanca. A ballare guardava sempre la sua dama negli occhi, mica i piedi come fa chi non è capace!

– Ocché ha ballato con tutte? O solo con la principessa? – chiese l’altra, spalancando la bocca, e fissandola imbambolata.

– Grulla, si vede che non sai nulla! C’erano talmente tante dame che non poteva ballare con tutte! Ma quelle che ha fatto ballare le ha guardate diritte negli occhi! Anche con la principessa ha fatto così e hanno parlato un pezzo.

Hanno parlato? – si meravigliò l’altra, stavolta spalancando oltre alla bocca anche gli occhi. Parlare era evidentemente una cosa straordinaria per lei. Talmente straordinaria che smise di lavare: – E quanto hanno parlato?

– Il tempo di tre Ave Marie. Poi il Re è andato a ripigliare la principessa e si sono riparlati solo alla fine, per salutarsi. Ai saluti c’era il ciambellano che non racconta mai nulla a nessuno, solo alla moglie che è amica della cuoca che è amica mia. Così ho saputo – e abbassò il tono della voce – che la principessa ha detto al sù cavaliere di vincere il torneo!

– Sono innamorati! Si sposeranno! – finalmente aveva capito qualcosa.

– Prima deve vincere – ribatté la serva chiacchierona.

– Ovvìa se è forte vincerà sicuro – come poteva non vincere? Si chiese la serva tontolona. Aveva ballato tutta la sera senza guardare i piedi, aveva le gambe lunghe, aveva perfino parlato. Si trattava di un essere straordinario, avrebbe sicuramente vinto.

– Mah, corre voce che il cavaliere abbia passato una brutta notte. Stamattina, lo stalliere di corte è andato alle prove del torneo sul terreno di gara. Ma il cavaliere non c’era. C’era solo il suo stalliere, venuto per vedere gli altri cavalli. Ha rivelato che il padrone questa notte è stato male.

– Scommetto che lo stalliere di corte poi lo ha riferito al ciambellano che lo ha detto a sua moglie… – indovinò l’altra riprendendo a sciacquare l’arazzo. Proprio tonta non era.

La terza serva non parlava. Era stanca, molto. Aveva lustrato meglio che poteva il palazzo per il ballo. Aveva continuato a lustrarlo per il Patrono e per il torneo. Lo avrebbe lustrato in ginocchio per il matrimonio, se questo avesse reso felice la sua principessa. Per lei la principessa si era gettata davanti all’altare nel Battistero di San Giovanni. La serva, che si chiamava Angelica, era preoccupata: a sentire le chiacchiere anche il cavaliere era stato male, proprio come la principessa. Sapeva che Elsa aveva chiamato Luca e il medico di corte e si era addormentata solo quando le avevano posato la corona con la reliquia sulla testa. Per Angelica non c’erano tante spiegazioni: era stregoneria.

– È un maleficio – annunciò a voce chiara e limpida, asciugandosi le mani nel grembiule.

Le altre due smisero di parlare, sbalordite. A quella meno sveglia cadde dalle mani il sapone che finì nel fiume. Angelica godeva di una certa autorevolezza tra le compagne da quando sapevano che era cara alla principessa.

– E noi aiuteremo la principessa a romperlo – continuò, con voce decisa.

– Siamo solo tre serve – obiettò quella che aveva tenuto banco fino a poco prima, ma che adesso era impaurita.

– No. Siamo molte, molte di più. Guarda – e aprì il braccio mostrando la folla di donne che continuavano a lavare e a parlare sulle rive dell’Arno. – Siamo così tante da stordire di preghiere San Giovanni. Tante da riempire tutte le chiese di Firenze. E guardate quanti bambini. E ragazzi e ragazze. Pregheremo e terremo occhi e orecchie aperte, casomai ci fosse qualcosa da scoprire. Una persona cattiva, per esempio. Una strega.

– Ho la pelle d’oca a sentir parlare di streghe – rispose la prima serva, pallida.

– E allora non parliamone. Ma passiamo parola che la principessa sta male e il suo cavaliere anche. E che se le toccherà sposare qualcuno che non le aggrada, sarà pena per lei e per noi tutti. Perciò, chi non vuole accender ceri perché è senza fede, almeno li accenda per non morir di fame!

Così cominciarono a passar voce. Spiegarono il fatto ai barcaioli che lo ridissero lungo tutte le sponde dell’Arno. A mezzogiorno la notizia arrivò alla casa del cavaliere e fu da tutti confermata. A sera, l’intera città sapeva del male misterioso che aveva preso i due giovani e già una piccola folla cominciava a sfilare davanti al Patrono per chieder grazia. E a tenere occhi e orecchie aperte, come aveva detto Angelica.

Gli zoccoli dei cavalli alzavano polvere, zolle di terra ed erba del rettangolo di terreno, luogo del torneo. Si provava la giostra, ci si esercitava di spada con il proprio scudiero, si tirava d’arco ai bersagli di paglia. Falegnami e fabbri di corte innalzavano il palco sul quale due giorni dopo, avrebbero preso posto il Re, la Regina e, naturalmente, la principessa. Tutto intorno avrebbero poi elevato dei tendoni per riparare gli invitati dal sole che adesso bruciava, nel caldo pomeriggio di giugno. Nel lato di fronte, oltre il terreno di gara, seduti su spalti costruiti con semplici assi di legno, sedevano, già numerosi, i fiorentini venuti ad assistere alle prove. Scommettevano tra loro su quale cavallo sarebbe stato il più resistente, quale cavaliere sarebbe stato migliore a tirar di frecce o di spada, e, pronostico più arduo, chi avrebbe vinto. Si erano accorti che i cavalieri erano diciannove e avevano anche capito chi mancava: Alessandro, il favorito.

– Dieci fiorini su Alessandro – scommise un uomo battendosi la mano aperta sulla coscia a dare vigore alle proprie parole – Sa già di vincere e non perde tempo a provare – dichiarò certissimo.

– No, sta male – intervenne un ragazzino, a voce bassa, restando timidamente seduto, sporgendosi appena per farsi sentire – mia zia è tornata stamane dall’Arno dicendo che gli hanno fatto il malocchio.

– Macché malocchio, è che prima ha fatto tanto lo spavaldo e adesso se la fila per la paura! – schernì una voce stridula alle loro spalle.

In diversi si girarono a guardare la donna che aveva parlato. Chi incontrò il suo sguardo sentì un brivido doloroso corrergli lungo la schiena.

– Lo hai sentito fare lo spavaldo? – le chiese l’uomo.

– Sì, alla festa. Si vantava con la principessa. Bisognerebbe stare attenti prima di parlare! – e la sua risata era simile al verso di un animale strozzato.

– Tu eri alla festa? A fare cosa? – le chiese ancora l’uomo. Ci teneva a capire se la sua scommessa sarebbe andata a buon fine.

– Sono stata invitata, è ovvio, mio figlio è il duca grigio che prima tirava d’arco.

Tutti si guardarono. La donna non aveva certo l’aspetto di una nobile, e nessuno si ricordava di aver visto un duca grigio. L’uomo si rilassò: quelle della donna erano tutte frottole e lui aveva puntato sul cavaliere vincente. Con un’alzata di sopracciglia decise di ignorarla e le diede le spalle tornando a girarsi verso il campo di gioco. Gli altri lo imitarono. La strega – perché era la strega! – restò a guardare suo figlio mentre saliva sul cavallo per giostrare. Il nipote della lavandaia, invece, la osservava. Pur con una certa ripugnanza si alzò e le sedette accanto dicendo:

– Mi spiace che non ci sia quel cavaliere, quell’Alessandro.

Lei si girò lentamente e lo fissò con quegli occhietti miopi. Lui sentì il cuore quasi fermarsi, precipitosamente aggiunse:

– Mica per lui, s’intende. Ma perché la gara è più bella se ci sono tutti.

– Sai che m’importa della gara. L’importante è che noi si vinca la principessa! –stupida e superba non temette di rivelare a chiare parole le proprie intenzioni – Guarda là, è mio figlio, vincerà di sicuro. Ehi! Chi è quello che gli sta andando addosso con quel cavallo? Accidenti a lui!

L’uomo che stava cavalcando contro il duca fece un ruzzolone insieme al suo cavallo baio. Gli spettatori gridarono: chiaro come il sole che il baio si era azzoppato. La strega ghignava soddisfatta:

– Un’altra volta sta più attento!

Il cavallo fu abbattuto. Il cavaliere, senza baio e con una spalla rotta, fu costretto a ritirarsi.

Il ragazzo aspettò che le prove finissero e seguì la strega e il duca grigio riuscendo così a scoprire dove alloggiavano: in un casale Di Là d’Arno. Con queste notizie tornò di corsa a casa. Si tenne una riunione che coinvolse tutto il rione. Furono chiamati anche Angelica e Luca. Al ragazzo fu dato in premio un sacchetto di fiorini appena coniati e furono portate botti di vino nero di Chianti per tutti. Luca corse da Elsa a riferire ogni cosa.

(continua)

3 pensieri su “Una fiaba per Benedetta – 3a puntata”

  1. Una fiaba Rock… Con una principessa cha ha scarpe “nuove” ai piedi… Corro a leggere la 4^ parte! Grazie per tanto stupore

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