Babbo orefice e la Terra Promessa

Ogni giovedì babbo lasciava la bottega in mano alla mia mamma, usciva stringendo la borsa portadocumenti in finta pelle nera e le chiavi dell’auto e partiva, percorrendo il Mar Rosso fino alla Terra Promessa, cioè la statale fino a Firenze. Parcheggiava lontano dal centro e con il passo lungo e veloce raggiungeva un condominio in mezzo ad altri condomini: l’ingrosso di oreficeria meglio rifornito della città. Suonava al campanello anonimo, salutava la telecamera, entrava nell’ingresso e saliva all’ultimo piano.

Era molto diverso dal suo negozio.

Tanto per cominciare il negozio di babbo era al livello della strada e l’unica apertura da cui il sole poteva entrare – convento Emiliani permettendo, altissimo com’è ancora oggi, di là dalla strada –  era la vetrina di un metro e mezzo. Lassù, invece, non c’era nessun ostacolo tra le finestre e il cielo, e il sole irrompeva potente dai vetri blindati.

Poi il negozio del babbo era piccolissimo, tra la porta (non blindata) e il banco c’erano appena due passi, invece lì, dall’ascensore (blindato) al banco c’erano metri e metri quadrati di moquette chiara, la prima volta che lo accompagnai avevo gambette da undicenne e attraversai chilometri e chilometri di moquette chiara, mi sembrava di non arrivare più.

In tutta quella luce ogni pietra, anche la più minuscola, la peggio tagliata, brillava tutto il suo splendore, e se mio padre fosse stato meno ragionevole e più stupido si sarebbe fatto distrarre, anche intimidire paragonando tutto quello spazio lucente con la propria vetrina, piccola e all’ombra del convento.

Lui, invece, non si faceva distrarre o intimidire, non dimenticava la propria vetrina ma la teneva ben presente perché andava riempita e non con un anellino purchessia, non faceva mica tutta quella strada ogni giovedì per niente, non lasciava mica la moglie in negozio a dire “glielo do’ io a mio marito l’orologio da accomodare” oppure “glielo do’ io a mio marito il rullino da sviluppare” per niente. Con a mente la vetrina piccola e in ombra poteva riconoscere i gioielli a misura di paese, moderni quel tanto da essere una novità, senza gli eccessi che li avrebbero fatti passare di moda.

Le commesse e i commessi lo riconoscevano, “Buongiorno signor Tedioli!”, gli mostravano i preziosi che sapevano di suo gusto, riponevano in sacchettini di carta bianca quelli che sceglieva, accettavano volentieri in cambio l’assegno che firmava. I sacchettini babbo li infilava nella portadocumenti e con quella usciva certo che nessuno gliel’avrebbe strappata di mano ché a nessuno interessavano documenti talmente insignificanti da essere portati in una vecchia borsa in finta pelle nera.

Da lì camminava spedito a un altro ingrosso, senza vetri e porte blindate stavolta, dove sceglieva le scatoline per confezionare gli acquisti appena fatti, in velluto blu per i gioielli più importanti – avrebbero racchiuso il solitario -, in raso a fantasia per quelli più leggeri – gli orecchini con cui avrebbe forato le orecchie della neonata, l’anellino per la Prima Comunione a forma di serpente dal minuscolo rubino a formarne l’occhio -, in finto avorio con dentro la bambagia rosa o azzurro a seconda il regalo fosse destinato a una  bambina o a un bambino. Riponeva anche le scatoline nella portadocumenti e passo disteso superava Ponte Vecchio, complimentandosi con sé stesso per non essere entrato in quei negozi che vendevano al triplo quanto aveva pagato all’ingrosso, arrivava in Piazza della Signoria, svoltava a destra, saliva le scalinate degli Uffizi, pagava il biglietto ed entrava nell’unico lusso settimanale che si concedeva.

Un giovedì alla volta, una sala dopo l’altra, Raffaello, Botticelli, e Giotto e Tiziano e altri di cui non sapeva nemmeno l’esistenza e invece avevano dipinto chilometri di tela più che tutta la moquette all’ultimo piano, e la sala delle miniature e le statue in marmo bianco e il corridoio vasariano. Quando arrivò là, al corridoio del Vasari, lo imboccò trovandosi a fare il tragitto inverso su Ponte Vecchio, sopra ai negozi che aveva sempre evitato, fino a Palazzo Pitti e anche lì un pezzetto alla volta lo girò tutto e quando finì Palazzo Pitti uscì nei giardini Boboli e poi entrò al museo naturalistico della Specola e la volta dopo nella basilica di Santa Croce e poi in quella di Santa Maria Novella e quando uscì da lì vide di fronte il Battistero e ci si infilò e scoprì il Giudizio Universale talmente ampio da costringerlo a piegare indietro la testa per farsi guardare, dovette sedersi sentendo arrivare un gran male al collo, e il giovedì dopo salì in cima al campanile di Giotto e avanti così in cinquant’anni scoprì Firenze, compresi i musei sconosciuti. Io tornavo esausta da queste maratone, gli Uffizi non mi interessavano, mi lamentavo incessantemente, così dopo qualche volta e con mio grande sollievo non mi portò più. Adesso, a cinquantatré anni, supplico i miei amici: andiamo a visitare gli Uffizi? Andiamo a vedere il Museo, la mostra, andiamo? Non voglio dire che sarebbe bello tornare ad allora che sennò avrei di nuovo undici anni e saremmo daccapo. Certo sono molto grata a babbo per il suo sguardo teso alla bellezza. Perché un bel giorno ho voluto guardare quello che lui aveva fissato per tanti anni e ne sono rimasta affascinata.

Tornando si fermava in pizzeria a Fognano ed entrava in casa con i cartoni fumanti, mamma voleva sempre la Quattro stagioni, il premio per avere aperto e chiuso bottega.

Anche stasera mi ha detto: “Edda, prenditi una Quattro Stagioni”. Per lui è rimasto il primo premio e anche per mamma, credo. Tutto il superfluo è stato eliminato dai suoi ricordi, sono rimasti solo i più significativi, immagini e sensazioni, e io ho imparato a setacciare le sue parole, sono una cercatrice d’oro in cerca della pepita nascosta tra la sabbia del fiume, devo solo avere la pazienza di farla affiorare. Lui individuava l’oro giusto tra tanti, io lo cerco nelle sue parole che oggi sono Edda, prenditi una Quattro Stagioni. Vale la pena di percorrere tutta la strada, attraversare il Mar Rosso per trovare l’oro, questo sentimento vivo e palpitante che dice di una presenza altrettanto viva e palpitante in Cielo. Se questa è la Terra Promessa stasera la sto calpestando.

10 pensieri su “Babbo orefice e la Terra Promessa”

  1. Caspita Dany! Bellissimo! Mi ha fatto pensare tanto il fatto che ci capita spesso di rinunciare a qualcosa di veramente prezioso pensando che sia inutile e di una noia mortale, senza sapere che, un giorno, saremmo lì ad aspettare finalmente quel momento prezioso!
    Grazie Dany!

  2. Ho letto tutti gli articoli alla Mamma ed ora è lei mi chiede,
    Erica, leggimi una nuova ‘zirudela’ della Daniela,
    è l’appuntamento settimanale che non possiamo perdere!
    Daniela grande cercatrice di emozioni vere e profonde, di pietre preziose, che con il tempo brillano sempre di più!

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