Cocci aguzzi di bottiglia

2/La Signorina Giulianini, una mattina a scuola

La Signorina Giulianini aveva passato i cinquant’anni e non si era mai sposata. Non ancora, perlomeno. Nel paesino dove abitava, invece, sembrava che non si celebrassero altro che matrimoni e battesimi e siccome i secondi erano molto più frequenti dei primi le classi della scuola media dove insegnava italiano erano molto affollate.

Non si perdeva d’animo. Trascinava senza tregua i ragazzi sui versi dei poeti prediletti, e spiegando si infervorava talmente che le diventava rosso il viso. A tratti scuoteva la testa così forte che il fermaglio, sfinito, mollava la presa, facendo esplodere la fiamma dei capelli nell’aria della classe.

Quel giorno di giugno, a mezzogiorno, con il sole che batteva forte sui vetri e infuocava l’aula, aveva letto Eugenio Montale.

Li aveva fatti andare su e giù per i versi del poeta, lungo il rovente muro d’orto descritto un secolo prima. Avevano quasi udito gli schiocchi di merli, fruscii di serpi – conoscevano entrambi, incontrati nei campi intorno al paese – ricordato di avere spiato file di formiche intrecciarsi come nel meriggiare pallido e assorto del poeta. Nonostante il paese si trovasse ai margini dell’Appennino, dentro la stanza era entrato il palpitare lontano del mare. Le cicale frinivano nel giardino della scuola, dove il sole abbagliava e la vita era un travaglio. Eh sì, lo sapeva la Signorina, c’erano travagli anche nelle loro giovani vite. I compiti, le interrogazioni, la mamma, il babbo, i fratelli, le sorelle, gli amici, le amiche. Gli innamoramenti. Lei sapeva bene – perché li guardava, eccome, e ne leggeva i temi – come tutto, a undici anni, potesse essere un travaglio.

Ma che quel travaglio fosse insuperabile come una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia questo no, nessuno in quella classe riusciva a crederlo.

Forse perché la Signorina Giulianini non contemplava questa possibilità.

Un travaglio, certo. Invalicabile?

“in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”.

Ascoltando il silenzio dopo l’ultimo verso, la Signorina avrebbe voluto avere sottomano un muro con cocci di bottiglia per vedere se era così invalicabile. E siccome la Signorina Giulianini quando desiderava una cosa diventava impaziente chiese subito: “Chi ha un muro con i cocci di bottiglia sopra?” “Mio zio ne ha uno!”. “Dove, Matteo?” “Dietro la scuola.” “Riempite gli zaini, andiamo”.

Uscirono dall’edificio, imboccarono un sentiero in mezzo ai campi. Tutti presi dalla stessa impazienza di vedere, se non una muraglia, quantomeno un muro e i cocci aguzzi. Matteo guidava il drappello. Faceva caldo. A mezzogiorno e mezza nei campi fa caldo. Nemmeno un albero, niente, solo sentieri e terra. Dopo dieci minuti erano sudati, assetati e già sfiniti. Ma quando Matteo urlò “Eccolo!” la Signorina Giulianini scattò e iniziò a correre, davanti a tutti, che presero a inseguirla all’impazzata. Arrivarono alla rinfusa, scontrandosi alla base del muro che recintava un orto.

Il muro era effettivamente lungo e alto abbastanza da sembrare, ai loro occhi di undicenni, una muraglia.

C’erano sopra tanti vetri taglienti, mentre sopra la Signorina c’erano i suoi capelli, già spettinati dalla lettura e in più dalla corsa, il fermaglio disperso chissà dove.

Il muro, che era fatto di sassi, era secco, pieno di formiche, e i vetri polverosi. La Signorina era morbida e per nulla polverosa. Ma così fremente non l’avevano mai vista, nemmeno quando leggeva ad alta voce. Trattennero il respiro. Furono certi che stesse per demolirlo.

Non lo sbriciolò. Fece due passi indietro e disse di guardare. Restò in fondo, lasciando loro davanti alla muraglia e ai cocci aguzzi.

Obbedirono. Immobili.

Fu per via della posizione che si accorse, dopo poco, di Matteo. Piano piano si muoveva. Lui sì che aveva il suo travaglio, e la Signorina se n’era accorta da un pezzo. Si potrebbe dire da molto prima che se ne accorgesse lui. Era verso il proprio travaglio che Matteo stava pianissimo muovendosi.

Preciso, un centimetro alla volta, di lato.

Prima un centimetro con il piede sinistro, spostando la punta della scarpa, poi allineando il resto del piede e del corpo. Dieci secondi, fermo. La punta della scarpa, un centimetro, il resto. Fermo, quasi senza respirare. Punta della scarpa, un altro centimetro, il resto. In silenzio, lentissimamente, un centimetro alla volta, verso sinistra, dietro al gruppo che guardava i vetri aguzzi. Coprì il mezzo metro che lo separava dalla ragazzina con i capelli neri pettinati a caschetto, che – evidentemente – doveva piacergli molto. La raggiunse e restò lì. A un centimetro da lei. Travagliato e felice.

La Signorina Giulianini li contemplò. Sentì arrivare la nostalgia e desiderò qualcuno accanto, a dieci millimetri di delicatezza.

Estrasse dalla borsa il fermaglio di scorta, legò i capelli e disse: “A casa! Domani andiamo avanti con Montale, perciò leggetevi ‘Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale“. Le scendeva insieme alla moglie che amava tanto”.

Che incontrino pure muraglie e vetri, pensò, e scoprano di non essere soli, foss’anche un desiderio l’unica compagnia.

“E poi vi farò scendere le scale della scuola – guardò Matteo – a due a due”.

Nemmeno la muraglia con in cima cocci aguzzi di bottiglia fermava l’attesa che Matteo sentiva scoppiare dentro.

Eugenio Montale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

24 pensieri su “2/La Signorina Giulianini, una mattina a scuola”

  1. Che carina la signorina Giuliani così delicata e sensibile. . . Si merita un vero uomo con cui scendere le scale insieme. . . E non solo muri con cocci aguzzi di bottiglia. . .

  2. “La raggiunse e restò lì. A un centimetro da lei. Travagliato e felice.“…. come sempre riesci a descrivere le emozioni Daniela. Grazie perché mi hai fatto rileggere con occhi nuovi queste poesie che non potevo certo apprezzare a scuola con i miei undici anni di allora. In compenso però, a ricordarmi bene, neanche a me mancava un “travaglio“ a cui avvicinarmi😉

  3. Questo personaggio femminile sta diventando famigliare. Meriggiare pallido e assorto è la poesia che tutti abbiamo letto e studiato a scuola. Io avevo 12 anni e frequentavo la 2 media. L’insegnante di italiano me la fece leggere come premio. Ho pensato che anche lei era una signora Giulianini con la passione per l’insegnamento e per i ragazzi.
    Grazie Daniela, aspetto i tuoi racconti anche perché, come sai, sono i preferiti di Patty.

  4. “travagliato e felice” che tenerezza i batticuori e le farfalle nello stomaco che tanto ti facevano sperare e illudere, poi magari era solo una tua idea

  5. Mi piace leggere i tuoi racconti senza prendere fiato! Senza staccare gli occhi dal testo! E tutte le volte chi finisco un racconto penso…si ok…..ma dopo …che gli accade? E mi lasci così….. tutte le volte…con racconti che potrebbero diventare libri!❤️

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