La Signorina Giulianini aveva passato i cinquant’anni e non si era mai sposata. Nel piccolissimo borgo dove abitava nessuno l’avrebbe, sbagliando, chiamata Signora. Sarebbe stato come mettere in piazza e sventolare i dispiaceri della Signorina e questo, nel paese, nessuno lo avrebbe voluto. Solo i forestieri avrebbero potuto sbagliare, come quelli che la domenica mattina arrivavano da Ravenna, sulle moto – il paesino era piantato su un cucuzzolo nell’Appennino Tosco-Romagnolo – per fermarsi al bar-latteria dove prendere un caffè, prima di ripartire per Firenze.
Ma la Signorina Giulianini la domenica mattina era in chiesa a insegnare il catechismo ai bambini della Prima Comunione perciò non vi era pericolo che succedesse. Usciva dalla casa dove aveva abitato tutta la vita con i propri genitori – che da alcuni anni risiedevano altrettanto stabilmente in Paradiso – incamminandosi lungo il viale che percorreva a passi ben distesi. Su una spalla teneva saldi i manici della borsa nera, carica di disegni da colorare per i bambini, e di spartiti per il coro della Messa. La borsa era consunta e anche le scarpe erano un po’ logore, dato che oltre alle gambe lunghe, una mente accesa, un cuore pio e generoso i genitori non le avevano lasciato molto altro. Ma era comunque un bel gruzzolo e il paese le era grato per come lo amministrava.
Al pomeriggio, quando i motociclisti passavano di nuovo diretti a casa, e si fermavano al bar-latteria per l’ultimo caffè della giornata, la Signorina era già nella Casa di Riposo del paese, a tener compagnia agli anziani che avevano avuto il peso di campare oltre i propri figli – e ce n’erano. Arrivava sempre dalla medesima strada, dato che la Casa di Riposo e la chiesa sorgevano giustamente una di fronte l’altra. I paesani per tutta la vita avevano riempito la navata con battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni, sostenendo con le offerte i missionari lontani, il cineforum e la squadra di calcio del paese. Adesso ricevevano, la mattina presto, il Santissimo dalle mani di preti sempre più giovani e, al pomeriggio, una fetta di morbida ciambella dalle mani della Signorina, che sembrava non cambiare mai. Lei arrivava dopopranzo e spingeva le carrozzelle con sopra i proprietari nell’ampia veranda che dava sul parco.
Aveva iniziato a frequentare la Casa quando la propria mamma, vedova, vi era ospite.
Poiché la mamma era sempre stata golosa di dolci e di poeti ermetici – a casa, ogni mattina a colazione, prendeva due fette della ciambella cotta la sera prima, per poi andare a insegnare italiano alle scuole medie del paese – il miglior modo per trascorrere il tempo insieme era immergersi nei versi di Saba, Montale, Ungaretti, Mario Luzi, emergendo qua e là per pigliar fiato e mangiare una fetta di ciambella. Quando la mamma era partita per raggiungere il marito e gli autori, non esattamente in quest’ordine di preferenza, la Signorina aveva proseguito le letture con gli altri ospiti che però, a differenza della mamma professoressa, non capivano granché e la ascoltavano come un tempo avevano ascoltato la Messa in latino. Fidandosi cioè, e sentendo arrivare comunque in petto – senza capire da dove arrivassero né come – la commozione e lo struggimento provocati dal suono di quelle parole messe così, in fila una dopo l’altra, da persone a loro completamente ignote.
La domenica sera, molto dopo che i motociclisti avevano lasciato il paese, la Signorina tornava a casa. Camminando ripassava a mente i fatti accaduti durante il giorno.
Quella domenica, per insegnare ai bambini a farsi il segno della Croce, aveva poggiato sul tavolo dell’oratorio una ciotola colma d’acqua benedetta. Una bambina l’aveva subito afferrata bevendola a gran sorsi. Era tornato don Stefano a benedirne dell’altra, i bambini non smettevano di ridacchiare. Alla Signorina, invece, era sembrato un gesto tanto significativo. Aveva immaginato la bambina così desiderosa di tutto da non accontentarsi del segno di Croce.
Al pomeriggio, si era accorta che un nonnino e una nonnina non avevano mai smesso di guardarsi ascoltandola leggere i versi di Montale, dedicati alla moglie: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Il nonnino e la nonnina erano entrambi vedovi, ed era evidente che ascoltandola nessuno dei due pensava ai propri defunti, né all’eventualità di lasciare un vuoto da lì a poco. Nemmeno alle briciole della ciambella che avevano appiccicate in faccia fin dentro le orecchie e al fatto di indossare i pannoloni. Pensavano, invece, come sarebbe stato alzarsi dalle seggiole a rotelle – lui l’avrebbe aiutata galantemente: posso signora Maria?, e lei avrebbe accettato: certo signor Nello – uscire dalla veranda dandosi il braccio, per scendere così le scale della Casa e inoltrarsi nel parco, tra gli alberi secolari.
Girando la chiave nella serratura della porta di casa, la Signorina Giulianini si chiese come sarebbe stato per lei innamorarsi di nuovo. Svuotò la borsa sul tavolo della sala e la riempì con i libri di scuola e il registro: la madre le aveva lasciato in eredità anche le proprie classi. Guardò il volume di Montale. Montale innamorato, gli anziani innamorati. Lei era l’unica a non avere il cuore palpitante, a non innamorarsi più da quel dì. Però lo desiderava, sotto sotto, con lo stesso impeto della bambina che aveva afferrato la ciotola di acqua benedetta. “Magari accadesse” si augurò, distrattamente.
Il Cielo, pieno zeppo di abitanti molto più del paese, e volendole bene al pari di loro, non si distrasse nemmeno un po’.
La domenica dopo, alle undici e tre quarti, uscì dalla chiesa dopo la Messa. A parte le scarpe e la borsa niente di lei era consunto. Gli occhi brillavano, i capelli ramati splendevano al sole di aprile. I bambini avevano ripetuto il Padre Nostro, che aveva insegnato affinché lo ricordassero per tutta la vita. Mentre li ascoltava, un contadino – lei non poteva ancora saperlo – si era ferito potando i peschi piantati a lato della strada. Era arrivata l’ambulanza impedendo alle auto – e alle moto – di proseguire verso le colline. La strada era stretta e bastava un niente per bloccarla, in questo caso era bastato il braccio del contadino. Oltre all’ambulanza era arrivata l’auto medica. Avevano dato una sommaria imbastitura agli orli slabbrati dello sbrago, caricato il ferito bestemmiante, e ripartiti. Anche le auto – e le moto – erano ripartite.
I motociclisti arrivarono al paese con mezz’ora di ritardo e issarono le moto sui cavalletti, davanti al bar-latteria, alla Casa di Riposo e alla chiesa, proprio nel momento in cui la Signorina Giulianini usciva attorniata dalle famiglie. Uno di loro rimase fermo a guardare la scena mentre gli altri entravano a ordinare i caffè.
Se ne accorse il farmacista seduto con il giornale in mano, a un tavolino fuori. Guardò dove guardava il motociclista e vide la Signorina Giulianini: gli venne il panico. La immaginò salutata con un disastroso ‘Buongiorno Signora’ o, peggio, adescata, fatta innamorare senza pietà, sposata e portata via dal paese. La prima ipotesi l’avrebbe lasciata sola e piena di tristezza e nostalgia per quel che poteva essere successo trent’anni prima e non era accaduto; la seconda avrebbe privato il paese della sua compagnia, per sempre.
Pieno di rabbia riguardò il motociclista e gli urlò: “Ehi voi! Entrate a prendervi il caffè che oggi avete fatto tardi! Non ci arrivate mica a Firenze per pranzo!”. Il motociclista lo guardò e gli sorrise. Non era un brutto sorriso, dovette ammettere il farmacista, non era il sorriso di chi era lì lì per distruggere la Signorina Giulianini, che nel frattempo si avvicinava con i passi lunghi e ben distesi e già alzava il braccio a salutare: “Buongiorno signor Pino!”.
Il farmacista ricambiò: “Buongiorno Signorina Giulianini!”. Il motociclista, tenendo il casco sottobraccio, si aggiunse: “Buongiorno Signora!”.
A quelle parole il barista rovesciò uno dei caffè sul piattino, il farmacista sbatté il giornale sul tavolino, la Signorina Giulianini ebbe un’incertezza. Il suo piede, invece di proseguire dritto e sicuro, si spostò come di lato. Lo corresse subito, fermandosi. Nessuno sconosciuto l’aveva mai salutata così. Era stupita e anche confusa. Non sapeva cosa fare. Doveva rispondere? Tirare dritto? Fece entrambe le cose. Disse “Buongiorno” e riprese a camminare svelta. Mentre entrava in casa udì il rombo delle moto allontanarsi.
Il cuore le batteva a precipizio, un po’ perché aveva davvero accelerato il passo, un po’ per lo stupore, un po’ per qualcosa d’altro che doveva capire. Non era abituata a percepirsi confusa. Sapeva sempre esattamente cosa spiegare agli alunni, cosa rispondere ai bambini al catechismo che la tempestavano di domande, cosa leggere ai suoi vecchietti. Qui non c’era nessuna domanda, o almeno così credeva, e niente dunque da rispondere. Perché allora si sentiva come se la vita l’avesse presa per le spalle e scrollata come una tovaglia piena di briciole? Perché si sentiva come se qualcuno l’avesse interpellata? Appoggiò la borsa sul tavolo della sala, vide il volume di Montale e ricordò cosa si era augurata una settimana prima. Alzò gli occhi al Cielo, allegra: “Ma che vi prende?” disse loro.
Dopo la partenza dei motociclisti il farmacista era entrato nel bar-latteria. Lui e il barista si erano guardati e avevano sospirato. “Pora Sgniurena Giulianini. Povera Signorina Giulianini” aveva detto il primo. E l’altro: “Prema o pù o sareb suzez. Prima o poi doveva succedere”. “L’ha ciameda Sgniora. L’ha chiamata Signora” “Aiò magari sintù. Ho davvero sentito” “E indess? Com starala? E adesso? Come si sentirà?”
La Signorina Giulianini si sentiva come a vent’anni, carica di energia e di stupore: viva. Era viva! Al pomeriggio, nella Casa di Riposo, le guance le si infiammarono più volte durante la lettura facendola apparire ancora più carina. Sorrise come mai ai vecchietti e alle vecchiette, guardandoli rapita, paragonandoli a sé, entusiasta di essere parte di quell’Amore a cui bastava così poco, un niente, per riaccendere i palpiti. Contenta si incamminò verso casa, pensando già su quali poesie trascinare l’indomani i suoi alunni di terza media. E fu lì, tra la chiesa e la Casa di Riposo, davanti al bar-latteria, che quella voce schiantò, per la seconda volta nello stesso giorno, come un fulmine: “Buonasera Signora!”
“Iè a là da du or a ciacaré. Sono là da due ore a parlare” disse il barista al telefono con il farmacista. “A veg magari, a stiv tot sott la mi fnestra. Lo vedo, siete tutti sotto la mia finestra. Guerda com cla pe’ zuvna stasera. Guarda come sembra giovane stasera.” Il barista guardò di nuovo fuori. La Signorina Giulianini aveva gli occhi spalancati mentre ascoltava il motociclista. Si erano seduti al tavolino, avevano ordinato dell’acqua. A volte era lei a parlare e sembrava un fiume in piena, dove guizzavano pesci colorati, rossi come le sue guance. “La ià badé ai su znitor tota la vita, la cress tot i basterd ed paes… tè rasò. L’ansera mej vesta exé. Ha accudito i genitori tutta la vita, cresce i bambini del paese… hai ragione, non si era mai vista così contenta. Mo sgand te l’andrà tot bè? E secondo te andrà tutto bene?” “Avdirè. Vedremo”, concluse il farmacista.
E videro abbastanza da restare contenti dato che non se ne andò via dal paese. Perfino a ottant’anni aveva mantenuto la passione per la poesia: una preferenza. (Si potrà avere una preferenza, no? e lei l’aveva. Anzi, si potrebbe dire che aveva più di una preferenza alla volta.) A questa passione o preferenza se ne erano aggiunte molte altre, compresa quella per le moto, che le era stata molto utile con i bambini al catechismo e a scuola, e le era utile con i vecchietti alla Casa di Riposo. A ottant’anni non aveva più classi al catechismo né alla scuola media. Non andava nemmeno più in moto. Aveva invece – loro sempre – gli ospiti della Casa ai quali leggeva. Molti anni prima aveva scoperto che agli ospiti piacevano i romanzi, al pari delle poesie. Aveva anche scoperto che vecchietti e bambini amavano gli stessi autori. Astrid Lindgren era la loro star da quando avevano letto Emil e solo davanti a Pippi Calzelunghe non si erano levati i consueti applausi al termine di ogni capitolo. A parte Pippi, gli altri libri della Lindgren andavano benissimo. Quel pomeriggio di aprile avrebbero terminato Vacanze all’isola dei gabbiani.
A dirla tutta c’era anche qualcun altro a cui piaceva ascoltarla leggere, nella sala, in casa. Da quando avevano smesso di andare insieme in moto nelle colline verso Firenze.
Con i consueti passi decisi, forse un po’ meno lunghi e distesi, mai incerti, suonò al campanello della Casa di Riposo, scoppiando dalla voglia di vedere le facce trasalire al finale.
“Chi è?” chiese una voce.
Rispose contenta: “Sono io!”
Si udì ancora la voce, rivolta agli ospiti: “E’ la Signora!”, e poi a lei: “Entri Signora Giulianini!”.
Mia cara appassionata amica,
come un acquerello dai colori freschi e delicati… il tratto distintivo della tua scrittura, ma le immagini che evoca sono potenti ed emozionanti.
Quando ero una bambina conoscevo una gentile Signorina Giulianini che insegnava italiano in una scuola media di Forlì ed aveva i capelli rossi. Conobbe l’uomo della sua vita poco prima di andare in pensione e lo sposo’ poco dopo.
Una incredibile coincidenza!😁
Liana
un Segno!
Letto tutto d’un fiato, come bere un bicchiere di acqua fresca, come respirare a pieni polmoni la brezza del mare al mattino presto. Grazie Daniela, grazie a te ed alla Signora Giulianini. ❤️
Ma sai che ha fatto anche a me l’impressione di sentire la brezza fresca? Che personaggino la Signorina Giulianini! Grazie!♥️
Un racconto delicato e coinvolgente, come vedere un film, bravissima
Cara Daniela proprio quello che speravo, grazie!
Mi sono immaginata Predappio e la signorina come se vedessi un film… brava cara Dany!
sì Predappio e Fognano sono molto simili… si somigliano come tutti i paesini nell’Appennino!